Filo Vals: «Dopo la laurea portavo i caffè in studio di registrazione. Così sono diventato un musicista»

Filo Vals: «Dopo la laurea portavo i caffè in studio di registrazione. Così sono diventato un musicista»
di Mattia Marzi
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Giovedì 21 Gennaio 2021, 11:46

Un ragazzo dell'Europa, ma con il cuore a Roma. Filippo Valsecchi, vero nome di Filo Vals, 24 anni e un cognome importante (è figlio dei produttori cinematografici Pietro Valsecchi, che ha firmato serie tv di successo come "Distretto di polizia" e "I liceali" e i film che hanno permesso a Checco Zalone di sbancare al botteghino, e Camilla Nesbitt), ha l'attitudine dell'artista e l'animo del giramondo. Chitarra in spalla, a 18 anni, dopo il diploma, scelse di trasferirsi nel Regno Unito. Non per provare a sfondare nel mondo della musica, ma per studiare economia a Londra. Salvo poi cedere - una volta conquistata la laurea - al richiamo della città eterna. Alla fine, ha preferito la musica ai numeri. Oggi esce il suo album d'esordio, intitolato Filo Vals (Papaya Records/Sony).
La svolta quando è arrivata?
«Due anni dopo la laurea. Non sapevo ancora cosa fare della mia vita. Partii per Los Angeles per andare a fare un'esperienza in uno studio di registrazione: lucidavo gli strumenti, passavo l'aspirapolvere e portavo i caffè a musicisti e produttori. A uno di loro suonai alcune delle mie canzoni: mi disse che avevo la stoffa giusta e mi suggerì di provarci. Gli ho dato retta».
Coraggioso: non è facile farsi strada nel mondo della musica. Tra i primi singoli e l'album quanti no ha ricevuto?
«Parecchi. Anche da Sanremo. Avevo provato a partecipare tra i giovani con Occasionale nel 2018 e l'anno scorso con Lunedì. Ma non mi sono mai buttato giù: le delusioni fanno parte del gioco. Ho capito che esistono altre strade, oltre alla tv».
Pregiudizi nei suoi confronti per via di quel nome ingombrante?
«Una costante».
È per questo s'è tagliato il cognome?
«No: l'ho fatto perché suonava meglio. Non faccio niente per nascondere le mie origini: anzi, ne vado fiero».
La passione per la musica gliel'hanno trasmessa i suoi?
«Sì. In casa giravano i dischi dei Rolling Stones, Bob Dylan, Lucio Battisti, Luca Carboni: sono cresciuto ascoltando questi giganti».
E invece i suoi modelli quali sono?
«I cantautori britannici di nuova generazione, che ho ascoltato molto negli anni dell'università a Londra: da James Bay a George Ezra, passando per Jake Bugg e Tom Odell».
Prima di partire per il Regno Unito cosa sognava dalla vita?
«Non avevo le idee chiare. Ero uno di quei 18enni che si sentono persi, senza sapere quale direzione prendere».
Studiava in maniera seria o come tanti coetanei passava il tempo a bighellonare?
«Studiavo. Infatti sono uscito bene».
Come l'ha presa la notizia della Brexit?
«Ci sono stato male. Ma non mi ha sorpreso. All'università si respirava un clima strano: tanti inglesi rivendicavano la loro grandezza e la storia del loro impero. Pensavo: e io che sono romano cosa dovrei dire?».
Oggi a Roma come se la passa?
«Non bene, anche a causa della pandemia. Vivo in centro e mi fa strano vedere deserti luoghi di solito affollatissimi. Ma non possiamo fare altro che aspettare».
Ha fatto discutere, a dicembre, la maxi rissa al Pincio: che effetto le hanno fatto quelle immagini?
«Sono rimasto perplesso. Temo che la violenza dei ragazzini abbia a che fare con il vuoto culturale di questi anni e con i loro modelli diseducativi».
Si riferisce ai trapper?
«Sì.

Mi piacciono le basi dei loro pezzi, ma non ne condivido il linguaggio. Più che disagio, colgo superficialità».

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