Chailly a Santa Cecilia prima di dirigere Salome: «Porto a Roma la musica che amo»

Il Maestro Riccardo Chailly il 24 febbraio ospite dell'Accademia di Santa Cecilia
di Simona Antonucci
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Domenica 16 Febbraio 2020, 07:00 - Ultimo aggiornamento: 23 Febbraio, 20:36
Melodie romantiche, intensità emotiva, fantasticherie: Sibelius, Grieg, Musorgskij. Riccardo Chailly porta a Roma le passioni dell’Europa gelida. «Torno con una musica che amo», dice il Maestro milanese, 66 anni, direttore musicale del teatro La Scala dal 2015, ospite dell’Accademia di Santa Cecilia con la Filarmonica della Scala, di cui è direttore principale.

Il 24 febbraio salirà sul podio per dirigere «brani con cui sono cresciuto e che hanno segnato la mia formazione». Finlandia di Sibelius, il Concerto per pianoforte di Grieg e Quadri di un’esposizione di Musorgskij nell’orchestrazione di Ravel. «E con un giovanissimo interprete Jan Lisieki che è già un talento straordinario».

Qui a Roma manca da 12 anni: un evento?
«L’ultima volta fu con un progetto su Puccini. Era il 2008. Prima capitava con più regolarità. Poi gli impegni si sono moltiplicati. Con la Scala, con la Filarmonica e Lucerna. Ore di studio con i musicisti, preparazione dei programmi, ma anche tanti problemi organizzativi. Di tempo ce n’è sempre poco. Ma oggi sono contento di tornare».

Lei al Parco della Musica viene con la sua orchestra Filarmonica: le capiterà di tornare per dirigere anche altre orchestre?
«Tre orchestre richiedono molta concentrazione. E poi ci tenevo a venire con la Filarmonica con cui lavoriamo assiduamente su questo tipo di repertorio. I brani scelti sono una sfida perché espongono l’orchestra in tutte le sezioni. Ogni sera è diverso».

Qualche anno fa ha scritto un libro che si chiama “Il segreto è nelle pause”. Nella musica, ma anche nella vita, ama le pause? E riesce a preservarle, con tre orchestre?
«Da giovani ci si concentra poco sul valore del silenzio. Lo si scopre vivendo. E suonando, naturalmente. Oggi è diventato necessario soffermarmi su quegli attimi preziosi, che alcuni compositori come Messiaen hanno trasformato in tesoro. Quando studio uno spartito e nel privato. Sento il bisogno, in alcuni momenti, di fermare tutto per dare il giusto tempo alla ricerca interiore. Il posto ideale per ritrovarmi è la montagna. È lì che riprendo quota».

Lei ama sostenere che chi fa musica è un privilegiato. Non ha mai avuto ripensamenti?
«Avvicinarsi all’arte, non soltanto alla musica, è un privilegio. E quando accade, l’arte diventa la compagna della tua vita, nobilita l’esistenza».

Come rinnova la passione?
«Con la ricerca. Studiando tutto quello che non conosco. Lo stimolo nasce dall’amore per la scoperta, dirigere è una conseguenza».

La ricerca va applicata anche nella scelta dei titoli per la stagione di un teatro lirico? Alla Scala?
«È esattamente ciò che anima il mio percorso da direttore musicale alla Scala, dal 2015. Approfondire il repertorio italiano, e in particolare Puccini. Spero di portare a termine il progetto integrale legato alla valorizzazione delle sue edizioni critiche, come è successo per la Tosca dell’inaugurazione».

Una dedizione totale al repertorio italiano... con delle pause. Ora sta provando Salome di Strauss.
«Un’opera che mi affascina. Solo cinque anni dopo il debutto di Tosca, nel 1905 Richard Strauss creò questo squarcio rivoluzionario nell’universo della musica».

La regia è di Damiano Michieletto: la prima volta che lavorate insieme.
«Un bell’incontro. Ne è nata una Salome diversa. Michieletto sa uscire dagli stereotipi in modo intelligente. Proporremo una lettura originale, interpretata da un cast eccellente. Malin Byström è tra le migliori Salome del momento».

Una Salome per l’8 marzo, la festa della donna: perché?
«È stato un caso. E il finale di Salome, poi, non è il massimo per una donna. Ma visto che è capitato, credo che Salome sia una figura femminile straordinaria. Oltre che un capolavoro straordinario».

Il suo rapporto con i registi è sempre sereno?
«Uno spettacolo è il frutto di uno sforzo collettivo. Alcune volte si costruisce con incontri sereni. Altre volte con veri e propri scontri. Ma anche dalle divergenze può nascere qualcosa di interessante».

Registi cinematografici, attori, scrittori: tutti firmano allestimenti lirici. Secondo lei, la competenza musicale è necessaria?
«Più che la competenza va valutata l’intenzione, l’idea. A Hollywood molti attori passano dietro le cineprese e portano a termine film eccellenti. Io tendo a non porre limiti. Certo, una conoscenza musicale, seppur di base, aiuta. Quando non c’è, è necessario aprire un dialogo serrato con il direttore d’orchestra. Perché si può discutere su tutto, ma mai mancare di rispetto ai capolavori».

Secondo lei i nostri Governi rispettano questi capolavori? Sostengono sufficientemente la lirica?
«Io non sono distruttivo nei confronti del nostro Paese. L’ho guardato dall’estero per trent’anni, da Amsterdam, Berlino, Lipsia, dove ho lavorato a lungo. L’Italia è una nazione privilegiata. E bisogna esserne consapevoli».

Parla dell’Italia milanese?
«Milano è la mia città. Ed è una città in continua evoluzione, sia strutturale, sia culturale. E poi la amo».

Quale sarà il suo gesto d’amore per la prossima inaugurazione della Scala? Lucia di Lammermoor? Macbeth?  Girano tante voci...
«È l’espressione più giusta per il momento. Girano voci, perché stiamo cercando le voci. Io preferisco partire dagli interpreti. E solo in virtù delle voci, arrivare poi alla scelta dell’opera».

Da qualche mese si è insediato il nuovo sovrintendente, Dominique Meyer: i cambiamenti sono stimolanti?
«Quando accade, l’importante è che la nomina si orienti verso una persona professionalmente molto qualificata.
E qui alla Scala è successo. Con Meyer stiamo cominciando a conoscerci. E a imbastire una relazione creativa. Ci riusciremo».
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