Alessio Arena canta Marco Polo: la melodia napoletana verace incontra il fado

Alessio Arena canta Marco Polo: la melodia napoletana verace incontra il fado
di Federico Vacalebre
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Domenica 10 Aprile 2022, 10:00

Essere ombelicali non è obbligatorio.

Travolta dal socialismo (nel senso di dipendenza dai social, sob!) prima, dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina poi, la canzone italiana appare afona, incapace di elaborare un pensiero divergente, non omologato, ha scelto il silenzio, vive rinchiusa in camerette adolescenziali, ha rinunciato ad essere orologio del tempo. Indie o trap, giovanotti o anzianotti qui non fa differenza.

Qualcuno, però, crede ancora al mestiere del cantautore, dello chansonnier figlio dei suoi tempi, del narrautore che non vuole solo mettere in rima «cuore» e «amore», o «pazzo» con «cazzo», per venire ai rapper in circolazione.

«Mi dispiace, ma trovo insultante/ questa pretesa di purezza/ e di ostentata identità./ Tutte le nazioni hanno mentito/ mischiando nel passato le proprie verità./ Siamo nati per viaggiare/ verso il mare minore./ Nessuno ci può obbligare/ a rinchiudere la vita in frontiere della fame», canta Alessio Arena nella prima canzone del suo quinto album, «Kublai Khan», viaggio immaginario sulle orme del viaggiatore de Il milione, come dell'Italo Calvino di Le citta invisibili.

«Il paese che non c'era» non è scritta pensando all'Ucraina, è nata molto prima del conflitto e guarda al mondo intero, con un cosmopolitismo che un tempo si sarebbe detto internazionalismo: «Profughi albanesi a Buenos Aires,/ turchi e croati vanno a messa/ nel deserto di Atacama./ Studenti inglesi ed esuli cubani/ saltano sopra quel che resta/ del muro di Berlino./ Madri siriane implorano un respiro/ al dio Mediterraneo».

E, tanto per dirla ancora più chiaramente, in un disco che usa l'italiano, il napoletano e lo spagnolo e (con)fonde la tradizione melodica verace con il fado, il bolero, il tango: «Gli altari della fede sono uguali/ a Calcutta, a Ramallah, Montevideo, Addis Abeba./ Ogni angolo remoto della terra/ ed ogni uomo cerca il suo modo per fiorire./ Dire la speranza e pronunciare/ anche in un'altra lingua la sua libertà... È la storia del mondo,/ siamo figli di un eterno movimento./ Il sogno di infinite migrazioni,/ la chimera del paese che non c'era». De André, Fossati, Battiato, Pablo Milanes, lo stesso Calvino, gradirebbero. 

Cantautore, scrittore, attivista lgbtqi+, traduttore e insegnante di Lingua e Letteratura iberica, figlio d'arte (papà è il Gianni Lamagna della Nccp), napoletano, classe 1984 con un piede in Spagna (e anche di più, visto che il disco esce per l'etichetta Escenamusic e debutta dal vivo stasera a Barcellona nell'ambito del festival «Barnasants»), Arena ha cose da dire e sa come dirlo: nel primo singolo usa la storia di «Kublai Khan» per ricordarci che una relazione tra due persone è fatta di storie condivise. Che l'amore e il sesso sono, e sono sempre stati, molto più fluidi e indefinibili di quanto ci abbiano fatto credere secoli di oppressione di genere: «Siamo stati ciò che era sconosciuto/ nei recessi dell'impero della civiltà».

I duetti con suo fratello Giancarlo e Roberto Colella sono gemme in un disco acustico, suonato col cuore, prodotto da Arcangelo Michele Caso. «Jastemma» e la felicissima melodia di «'A felicità» riconsegnano ad Alessio la lingua natia, «'e suonne antiche/ e chi m'ha dato a vita/ quanno nun se vuleva fa pria'». «Espina» lo mostra padrone della versificazione nella sua lingua adottiva, mentre la voce si affranca dalla scuola cubana della «nueva trova» a cui in passato doveva molto più che adesso e ridà senso all'espressione «di classe», che non sentivano più da milioni di anni luce: «Non sentirti molestato/ per la mia voce, quella del proletariato», canta. E chiude il disco con un brano autobiografico sui «figli della luna» che De André cantava in «Andrea»: «Quelli come me non possono fiorire/ su questa terra scura,/ ma hanno solide radici sulla luna./ Il mondo è buio ma la luce sta negli occhi tuoi/ per vivere una stella cerca la sua notte scura/ questo lo ha detto mio padre, la luna».

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Insomma, «Marco Polo», ridà voce alla canzone d'autore newpolitana, italiana, spagnola, da troppo tempo ripiegata nell'intimismo autoassolutorio, la tinge di world music, di neofolk latino, anche qui a sottolineare l'assurdità di presunte «purezze». Ascoltatelo, lo merita. A Napoli Arena dovrebbe presentarlo il 19 giugno, nel cortile della basilica di Santa Maria alla Sanità. Intanto, il suo ultimo romanzo,

Ninna nanna delle mosche (Fandango libri) sta diventando un cortometraggio che dovremmo vedere alla prossima Mostra di Venezia, grazie alla vittoria del Premio Bookciak Legge 2022. 

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