Scrivere è una mania: da Voltaire a Roth, le nevrosi degli scrittori

Scrivere è una mania: da Voltaire a Roth, le nevrosi degli scrittori
di Luca Ricci
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Sabato 16 Aprile 2016, 10:05 - Ultimo aggiornamento: 19 Aprile, 15:26
La letteratura è la più incorporea di tutte le arti. Pensate a un pittore, a uno scultore, a un regista o a un danzatore: questi artisti non smettono mai di plasmare una materia tangibile, tele, pietre, set, corpi. Lo scrittore invece non ha appigli nel fare ciò che fa, e la sua arte è tutta mentale, il suo tavolo di lavoro innanzitutto si trova dentro il cervello. Da qui, la nevrotizzazione da parte dello scrittore dei pochi oggetti che costituiscono gli utensili del suo lavoro, lo sforzo d’inventarsi una realtà da abitare, da dove magari poter dire: se vado lì vuol dire che sto lavorando (anche se ormai tutti sanno che gli scrittori lavorano sempre, soprattutto quando non ne hanno l’aria e si trovano lontani dalla loro scrivania). Insomma, lo studio letterario (e la routine che ci gira attorno) è l’artificio più grande, la vera opera d’arte degli scrittori.
 
Di questi impacciati tentativi da parte degli scrittori di dare un’espressione compiuta al loro ineffabile lavoro- peso all’impalpabile, colore all’evanescente, profilo all’informe-, ne troviamo a bizzeffe nel gustoso libro enciclopedico “Rituali quotidiani” (Vallardi, pag. 270, 15,90 €) di Mason Currey. Così scopriamo che in mancanza di meglio, Thomas Wolfe per scrivere si masturbava. Accarezzarsi i genitali, secondo lui, favoriva “una sensazione tanto forte e bella” da alimentare le sue energie creative.  Voltaire lavorava sdraiato a letto e forse gli piaceva così tanto scrivere proprio perché “adorava stare in camera sua”, mentre Truman Capote per riuscire a combinare qualcosa doveva fumare, ma non sopportava di vedere nel posacenere più di tre mozziconi di sigaretta.
 
Vezzi, tic, manie abbondano nella descrizione del disperato tentativo da parte degli scrittori di rendere la scrittura un lavoro come un altro, una routine fatta di gesti tutti uguali, un rassicurante tran tran in grado di trasformare l’artista in un colletto bianco. Tra i più abitudinari, Thomas Mann si svegliava sempre prima delle otto, e dalle nove fino a mezzogiorno ai figli era proibito profferire parola per non disturbare l’attività del padre: un lavoro compiuto senza strappi, che procedeva “un passo lento alla volta”. Anche Haruki Murakami segue una sfilza di prescrizioni durante la stesura di un romanzo: sveglia alle quattro di mattina e lavoro continuativo per quattro o cinque ore; dopodiché corsa o nuoto perché per scrivere “la forza fisica è essenziale tanto quanto la sensibilità artistica”.
 
Più spesso però la routine cede il passo al rito: ci sono dei gesti che vengono ripetuti, ma così come accade in una liturgia. Lo scrittore insomma non ce la fa a dissimulare fino in fondo l’eccezionalità del suo lavoro, che resta un mistero quasi teologico, senz’altro sacro. Sorretto da una forza per certi versi sovrannaturale William Faulkner scrisse “Mentre morivo” di pomeriggio, prima dei turni di notte che faceva come sorvegliante alla centrale elettrica dell’università: “Scrivo quando mi sento di farlo e mi sento di farlo ogni giorno” era solito dire. Philip Roth, recluso in un austero edificio del XVIII secolo nella campagna del Connecticut, invece qualche anno fa ha dichiarato che “scrivere non è un lavoro duro, è un incubo. Il lavoro in sé è molto ripetitivo. In effetti, ogni scrittore deve avere la capacità di rimanere fermo e immobile, perché è un lavoro assolutamente privo di eventi di rilievo”.
 
 
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