Roberto Cotroneo, nel memoir la critica ad un mondo dove tutto è marketing

Roberto Cotroneo, nel memoir la critica ad un mondo dove tutto è marketing
di Andrea Velardi
7 Minuti di Lettura
Mercoledì 3 Ottobre 2018, 21:23
 
Di solito gli scrittori si rivolgono alla memoria del passato per esprimere nostalgia inconsolabile e per criticare il presente come necessariamente inadeguato a ciò che è irrimediabilmente scomparso. Niente di personale di Roberto Cotroneo conserva il sapore di una malinconia del presente, mondo «pieno di vini novelli stappati come fossero un Brunello», di «letture mai fatte eppure esibite», con gli involucri della moda, del gusto che finiscono «nel tempo di una fragranza spruzzata nell’aria», tempo di egualitarismo spiccio e trash. Al contempo esce fuori dallo schematismo, discerne i limiti del passato, rifiuta di «rattoppare i fantasmi» ricamando con una coerenza plausibile, pubblicabile, refrattaria alle digressioni. Ecco dunque una rassegna autobiografica prismatica, ricca di elegiaci aneddoti familiari, dialoghi e retrospettive pregnanti con amici e intellettuali di ogni generazione. Un memoir che, senza questa doppia prospettiva, sarebbe caduto facilmente sotto l’accusa di un ritirarsi troppo frequente dei nostri scrittori dentro le pieghe troppo favorevoli e morbide dell’autobiografismo, della memorialistica privata, dell'aneddotica leziosa. Ma che invece ne è miracolosamente esente. 
 
Ha profonde radici l’antefatto questo libro: una piccola, tragica epica familiare fatta di dolori che all’epoca restavano anonimi, con la nonna che, dopo il primogenito ucciso dai colpi di mortaio nel 1917 nei monti albanesi, seppellisce cinque figli, tra gli otto e i dieci anni, a causa della dell’influenza spagnola; con un padre, nato nel 1921, che, a dieci anni, aiutava il nonno nel lavoro nei boschi e poi subisce una metamorfosi incredibile. Il sartino con licenza elementare di un paese della provincia di Reggio Calabria riesce, a 26 anni, grazie al fratello che, nel 1947, comincia a inviare dei vaglia dagli Stati Uniti, a diventare un cardiologo affermato nella città del Nord dove Cotroneo nasce all’inizio degli anni sessanta.  Oltre questo dettaglio, grande sobrietà, nessuna enfasi narcisistico-narrativa,  nessuna concessione al marketing dell’identità, nemmeno sull’incontro con Pietro Germi che lo voleva in un film con Amedeo Nazzari. Una famiglia centrata sulla categoria del silenzio, in cui nessuna storia poteva reclamare il suo glamour, i suoi diritti. Il padre democristiano gli fa conoscere un Andreotti inedito, affatto clericale e rattrappito, alto,  mondano, «capace di parlare senza vezzi e timori da catechismo, teneva le mani in modo normale, e non come fosse un confessore tormentato dai peccatori impenitenti».
 
Ma ai democristiani mancava lo charme politico secondo quelli di sinistra, considerati gente cheap,  «amministratori di un potere che quando andava bene sapeva di incenso e quando andava male sapeva di muffa». Almeno dalla prospettiva della Roma del settimanale L’Espresso, il settimanale dove Cotroneo giunge nel 1984, attraverso il quale «fu come rompere il velo di Maya del non detto» in cui era cresciuto, attraverso il quale significava cominciare a raccontare e a farsi raccontare, immaginare vite laddove non era mai stato concesso immaginarle, salire su una giostra che aveva tutte le lampadine accese. «Entravo nel mondo dei diminutivi, dei vezzeggiamenti, delle amicizie, non erano più dei ruvidi silenzi, ma mondanità, salamelecchi, bizantinismi, sorrisi e brindisi, candele accese e luci basse, crooner e seduzione, Uscivo da un mondo stuccato a regola d’arte, dove sembrava esserci solidità e coerenza, e arrivavo a un muro dove si appendevano troppi quadri e si fingeva fossero capolavori».
 
«Eravamo due poteri: noi e loro e si trattava» dice il condirettore Nello Ajello . All’Espresso Cotroneo conosce la forza del quinto potere, una dialettica proiettata nel tripudio di sigle e correnti politiche tipica di quella Prima Repubblica pluralista e proporzionale, con quell’atmosfera tutta italica, e soprattutto romana, in cui convivevano democristiani, cattolici del dissenso, sinistra liberal, comunisti, socialisti convinti, craxiani, azionisti, repubblicani. Ma i giornalisti non avevano l’affanno di oggi, pronti a condurre la prima trasmissione televisiva che gli venga offerta, anche se chiuderà dopo tre puntate, pronti a servire il potente di turno e vantarsi di fonti non genuine che servono solo a scrivere notizie non vere ma belle da leggere e per riempire le pagine dei quotidiani.
 
Il tradimento di una fidanzata, seguito alla separazione dalla moglie, dà a Cotroneo la spinta per scrivere un romanzo rimasto nel cassetto che però gli serve oggi per riflettere sull’amor fou, nevrosi ossessiva di almeno tre generazioni di italiani, la maggior parte dei quali però innamorata solo di se stessi in una spirale di romanticismo, erotismo, seduzione alimentata da «ferormoni sommati al Gabbiano Jonathan Livingston e Siddharta». Persone che non capiscono la propria identità e alla fine ricorrono agli psicofarmaci, tra rotture scandalistiche dei copioni tradizionali e finto rifugiarsi nella quiete del moralismo borghese, tra modelli patinati e il sesso che inventa l’amore. Il romanticismo, la sua vecchia struttura portante imperniata sul modello «delle relazioni pericolose di Laclos», reinterpretate dai «rabdomanti della passione» è divenuto un mercato del desiderio, con il piacere mascherato e nobilitato come progetto per il futuro. Ma d’altra parte anche gli anni sessanta e settanta avevano i loro difetti con il cuore che non veniva trafitto da nulla, perché era una faccenda buona per Anna Karenina, protetto da una durezza sentimentale espressione del terrore dell’intimità, del terrore «di rivoltare la pelle e mostrare la carne viva del dolore, dell’intensità». L’amico Federico Fellini avrebbe sussurrato di continuo la domanda: «Lei è sicuro?». Con la sua voce flautata continua ad accompagnare le riflessioni dell’autore, anche se può invitarlo più da Cesarina in via Piemonte.
 
Cotroneo si sofferma soprattutto sulla coda finale, sulla parabola decadente di questa Italia contemporanea: «Siamo rimasti in bilico per decenni tra la paura che arrivassero i bolscevichi e la paura dei golpe, come le cantate dei giorni pari e dei giorni dispari di Eduardo De Filippo» con il suo ‘adda passà ‘a nuttata’, forse consapevole «che certe nuttate potevano durare anche decenni. Finì che la Notte della Repubblica divenne una fortunata e drammatica trasmissione televisiva, e di notti se ne sarebbero viste molte, anche quelle magiche dei mondiali di calcio più o meno vinti, ma soprattutto persi, di questi decenni. Finì che in quella fine degli anni Ottanta tutto ribollisse a fuoco basso, in una cucina senza più cuochi, dove in pentola ognuno aggiungeva qualcosa per dare più gusto, per rendere più saporito il piatto».
 
In passato invece «la messa un scena della vita obbediva a regole facili e gradevoli. Si era tutti giovani in un mondo dove si celebrava il rito del possibile: un certo agio, il piacere e la carriera». C’era un paese in cui ognuno sapeva darsi il suo ruolo, dove Mondadori pubblicava scrittori leggeri accanto a D’Annunzio, Hemingway e Simenon, ma dove Liala non si sognava di essere recensita dai grandi critici, come accade oggi in un’epoca in cui «tutti vogliono giocarsi delle carte identitarie nella partita della vita». Un paese in cui convivevano già l’alto il basso, il nobile e il kitsch, dove Pippo Baudo e Maurizio Costanzo inventavano i nuovi libri e i nuovi autori di riferimento, stravolgendo le cornici consolidate e le tradizioni solenni del mondo culturale.
 
Ma nel dialogo profondissimo con Mario Tedeschi, il grande letterato che tutti i giornalisti cercavano solo per il racconto di quando litigò con Italo Calvino per difendere Guido Morselli tra un florilegio di indifferenze critiche, in una Roma ormai disfatta, che non ricorda nulla di quello che è stata, si ricordano anche le contraddizioni del mondo culturale del passato a volte troppo vanesio, esorbitante, pieno di sé, dove c’erano editori per i quali Piero Gobetti aveva scritto Ossi di seppia e l’opera più importante di Robert Musil era L’uomo qualunque. Tedeschi ricorda le diatribe che oggi sono seppellite da ottusi sorrisi e stolida indifferenza, l’ansia di Togliatti sul ruolo morale da attribuire alla letteratura, il lamento di chi pensa che non sia mai un’epoca buona, quello che in verità segnala la scomparsa della memoria della felicità, buona solo oggi per compare macchine e fare viaggi. Ogni epoca ha le sue ombre, ma la nostra ha distrutto le condizioni per  l’attività del ricordare.  «Le biblioteche conservano libri che nessuno potrà più leggere, non perché un crudele regime ce lo impedisce, ma perché il regime siamo noi, noi che neghiamo a noi stessi le nostre libertà». E il libro è diventato un prodotto, un brand accanto gli altri, dove il titolo conta più del contenuto.
 
 
 
 
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