La rinascita del racconto nelle ossessioni di Philip Ó Ceallaigh

La rinascita del racconto nelle ossessioni di Philip Ó Ceallaigh
di Luca Ricci
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Sabato 8 Ottobre 2016, 09:08 - Ultimo aggiornamento: 18 Ottobre, 10:49
Che bello se le presentazioni letterarie finissero a botte. Farle diventare cioè non più uno scambio di cortesie (per lo più falso) tra scrittori ma, in un certo senso, tirarle fuori dalla naftalina dei salamelecchi e restituirle alla vita, che sostanzialmente è una sequela di eventi minacciosi. Penso a questo mentre stringo la mano a Philip Ó Ceallaigh, di cui devo presentare “Appunti da un bordello turco” (Racconti edizioni, pag. 343, 16,00 €), una raccolta di racconti veramente notevole, che non ho fatto nessuna fatica a leggere in vista di questo impegno a San Lorenzo, alla libreria caffè Giufà.

Philip è abbastanza esile- ormai ne sono convinto: in una colluttazione avrei facilmente la meglio- con due capocchie di spillo azzurre molto irlandesi al posto degli occhi, così com’è molto irlandese il fatto che il suo alito sappia già di birra e lui se ne resti impalato sulla soglia della libreria con un atteggiamento un po’ da spaccone. Gli chiedo se è corretto pronunciare il suo cognome come la parola italiana “Occhiali” e lui per dirmi di sì mi mette una medaglia immaginaria al collo. Penso tra me: Philip hai trovato pane per i tuoi denti, stasera uscirai malconcio da questa presentazione.

Arrivano altre birre, si comincia a parlare. Io faccio una breve e doverosa premessa sulla rinascita del racconto in Italia e nel mondo (il Nobel alla Munro eccetera). Per lo scrittore di racconti è finito il tempo del piagnisteo senza fine, stanno accadendo cose proprio adesso, ci sono siti e lit-blog espressamente dedicati, e addirittura nuove casa editrici come appunto Racconti edizioni che non fanno altro dalla mattina alla sera: cercano buoni racconti. Il mio desiderio caravaggesco di rissa deve attendere, perché su questo punto vedo annuire molte teste in sala, e anche Philip non trova nulla da obiettare.

Poi attacco a parlare del libro, che a mio parere non è ciò che sembra. Visto che la biografia di Philip è abbastanza tormentata- ha girato un sacco di paesi, facendo tutti quei lavori sottopagati tipici dell’apprendistato letterario- sembra di avere a che fare col diario di un apolide metafisico giramondo, che riporta impressioni di viaggio. In realtà in “Appunti da un bordello turco” io invece ho toccato con mano la convinzione di Čechov che uno scrittore di racconti debba parlare di ciò che è “immutabile nel mutamento”. Così nel libro cambiano molti set- Turchia, Romania (Philip vive attualmente a Bucarest), Stai Uniti- ma le storie sono intrise di esistenzialismo più che di sociologia.

Philip rilancia indugiando un poco sui suoi influssi letterari, che sono sostanzialmente nord-americani. Parla soprattutto di Ernest Hemingway e Charles Bukowski. Concordo soprattutto con la menzione del secondo che, a mio avviso è il più vicino al mondo di “Appunti da un bordello turco” e ha la stessa grazia nel descrivere gli ultimi, i diseredati, quelli che vivono nelle periferie delle grandi città (e mi vien anche da pensare che la forma breve storicamente ha questa predilezione verso gli ultimi o i fuoriusciti: i folli di Poe, gli anodini di Gogol’, i contadini di Verga, gli alcolizzati di Cheever, i working class hero di Carver) .

Arrivano altre birre. Dovendo soffermarmi sullo stile rintracciabile in “Appunti da un bordello turco” mi lancio in un accostamento impavido: dico che secondo me tutti gli scrittori di racconti sono punk rocker, ma il Nobel a Bob Dylan non c’entra nulla, la questione è essenzialmente data dalla ritmica scoscesa, verticale. La velocità è intrinseca alla forma racconto, il che non vuol dire che i racconti siano più semplici di un romanzo: lo sforzo che richiede un romanzo è di farsi leggere, quello che richiede un racconto è di farsi ripensare. Insomma, velocità non vuol dire per forza di cose superficialità. E poi è bello pensare a Maupassant come a un Joe Strummer coi baffi a manubrio.

Philip annuisce e non potrebbe essere altrimenti: i suoi racconti stilisticamente sono granitici, compatti: nella maggior parte dei casi vanno via velocissimi, e lasciano una scia, un’eco immediata che risuona potente. Come nel racconto “Una serata d’amore” dove un disperato dopo un’infruttuosa giornata al mercato a vendere pesche marce sogna una piccola rivalsa sulla sua vita meschina trascorrendo qualche ora di piacere con la sua ragazza. Ma un terribile gioco di luce sulla pelle di lei, prima di fare l’amore, gli svela un’abbronzatura integrale (e una gita al mare con amici) di cui sapeva poco o niente. Manco a dirlo, la serata trascorrerà nient’affatto piacevolmente, con la presa di coscienza che gli atri sono enigmi sfuggenti. Alla fine con Philip “Occhiali” ci abbracciamo. Le botte magari la prossima volta.

 
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