Vitagliano, con “Habeas Corpus”
la poesia come inno all'impegno

La copertina di "Habeas Corpus"
di Leonardo Jattarelli
4 Minuti di Lettura
Martedì 23 Agosto 2016, 15:12 - Ultimo aggiornamento: 15:39
C’è un cassetto dell’ordine e uno del disordine. I ricordi per lo più sono stipati nel primo, odorano di terra, di immagini seppiate, di lavori sudati, piccole città dell’anima, gesti minimi e sguardi oltreconfine. Nel secondo cassetto, in un ordine disordinato, si sistema l’oggi, con le sue battaglie vinte e perse e spesso mai iniziate, con le grida di una ribellione soffocata, l’anelito ad una giustizia finalmente giusta, l’ansia di un cambiamento che non avrebbe bisogno di grandi rivoluzioni ma semplicemente di azioni.
La poetica di Pasquale Vitagliano, condensata nel suo ultimo “Habeas Corpus” (46 pagine edite da Zonacontemporanea), è quietamente ribelle e allo stesso tempo possiede la forza di un uomo di pietra pronto sempre a sgretolarsi, ma le radici, quelle sono solide, ancorate ad una tradizione di passione e intimismo notturno. Sarebbe semplice comprendersi e comprendere: “Bisognerebbe rimettere a posto le cose/se solo fosse possibile, ma ormai l’intero armadio/è crollato e non c’è più spazio per ritrovare un luogo/dove ogni cosa sia messa nella sua migliore collocazione”. Ecco, fin dal principio Vitagliano ci porta per mano on the road, sulla sua strada; ne “La scelta di Sophie” si impone già una decisione, lo spartiacque è chiaro: “E nessuno mi ha ancora imposto/ di fare la scelta di Sophie/ma non per questo mi è meno dolente/scegliere fra gli opposti luoghi del bene”. Eppure la soluzione, leggendo le sue bellissime, dense poesie scandite da tre colori, Giallo, Rosso, Nero, sembra sempre lì, ad un passo… se solo ci fermassimo ad ascoltarci, “La brutta notte” potrebbe trasformarsi in un viatico di salvezza: “…Ci vorrebbe una notte/che rendesse sontuose le rovine/e ragionevoli le disperazioni/Se solo ci fosse una notte di silenzio/o di parole piene di silenzi”.
Prefazione
Nella prefazione al libro, scrive bene Nicola Vacca: «Vitagliano con questo nuovo libro sa essere poeta del proprio tempo. In ogni verso c’è la concretezza tutta fisica di una realtà che ci appartiene con le sue più intime contraddizioni. Parole concrete e nuove a servizio della vita e delle sue cose elementari. Una lezione che nessuno può permettersi di ignorare. Questo – scrive ancora – non è più il tempo di perdere di vista la nudità della chiarezza: è in gioco la nostra memoria e identità di esseri umani».

Sì, è vero, in Habeas Corpus si avverte forte e chiaro il monito a non disperdersi in un’antipolitica da accattonaggio, di non farsi risucchiare dal populismo becero o peggio dalla afasia del quotidiano. Ma ciò che resta “dentro” leggendo le poesie di Pasquale Vitagliano, giornalista e scrittore che avevamo già apprezzato nel suo bel romanzo “Volevamo essere statue” (ed. Sottovoce), è la forza intima del suo riflettere e riflettersi, capace di creare sequenze di un cinema d’altri tempi. Leggete “Fine della malattia” ad esempio, e troverete una sceneggiatura che profuma di Prevert, Truffaut, Bergman: “Non c’è più la malattia/a far galleggiare sul pantano/il nostro amore senza amore/E’ più molesto/questo nostro stalking quotidiano/della violenza di un estraneo/Siamo stati messi all’angolo/dal rumore dei ragazzi/zittiti dalle nostre paure/impotenti per le nostre querule verità/Non si chiamerà genealogia/questa sequenza di ingenue casualità/Vorrei andare al cinema/a rivedere la mia storia”.
Testimonianza
L’urgenza della testimonianza diventa quasi un comandamento per il poeta; ogni piccolo gesto o parola, ogni malinconia potrebbe già contenere in sé una futura gioia, e invece oggi “tutto scivola via senza coscienza, non ha più memoria/E non te ne duoli/è andata così” scrive in “Graffiti”. Il rischio è quello di rimanere spettatori muti di un’umanità alla deriva. Non c’è più tempo: la coscienza critica dell’autore ci lascia soli davanti al mare. Un mare che possiamo ancora scegliere se far rimanere liquido amniotico, schizzo di vita o invece sudario infinito per corpi che migrano senza volto: “Il mare toglie il velo ai morti che tornano veri/come i corpi, le cose gettate nelle discariche/Non puoi esitare a chiamare realtà ciò che resta/In mare i corpi, in terra le cose, senza più confusione/fino a sbatterti in faccia che se il mare vomita/la terra è malata”.

 
© RIPRODUZIONE RISERVATA