Lavinia Scolari e le «ingannevoli e maligne arti dei doni» nei racconti dell'antica Roma

Lavinia Scolari e le «ingannevoli e maligne arti dei doni» nei racconti dell'antica Roma
di Andrea Velardi
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Giovedì 4 Ottobre 2018, 22:05 - Ultimo aggiornamento: 6 Ottobre, 00:26
«Temo i greci anche quando portano doni». Generazioni di studenti si sono imbattuti in questi versi dell’Eneide di Virgilio, nel lamento con cui Laacoonte mette in guardia i Troiani perché non facciano entrare il famoso cavallo all’interno della città. Un adagio sospettoso, diffidente e minaccioso che introduce bene alla riflessione sull’ambiguità e i retroscena affatto limpidi del linguaggio del donare, infido e pericoloso, mala ars dolosa, piena di astuzie e inganni, approfondita dall’indagine sottile e affascinante di Lavinia Scolari nel suo Doni funesti. Miti di scambi pericolosi nella letteratura latina, e anche nella letteratura sorella, quella greca, che di molti miti romani è la fonte ineludibile.

«Forse ti sembrerò̀ avaro e maleducato, ma ho in odio le ingannevoli e maligne arti dei doni. I doni imitano gli ami: infatti chi è che non sa che l’avido pesce scaro viene ingannato dalla mosca che ha trangugiato». E’ l’agguerrito poeta latino Marziale, il primo a smascherare la degenerazione dell’usanze e dei rituali del dono nell’antica Roma, mentre spedisce solo umili libelli al ricco amico Quinziano, durante i Saturnali, in cui volano per la città suppellettili, papiri, prugne mature di Damasco e ogni tipo di regalo. La rivelazione di questa ambivalenza perversa pervade una introduzione veramente pregnante sulla filosofia contemporanea del donare ispirata a Jacques Godbout e al gruppo francese Mouvement Anti-Utilitariste dans le Sciences Sociales, con il riferimento ineludibile a Marcel Mauss e al suo Saggio sul dono del 1924 dove il grande antropologo e sociologo metteva in evidenza come nelle comunità tribali i doni alimentassero relazioni interpersonali di tipo asimmetrico influenzando le scelte degli attori coinvolti, spostando l’attenzione più sugli attori del donare che sugli oggetti donati.
 
Non ci sfuggono, le diverse esegesi fornite dagli antropologi della teoria di Mauss, né alcune sue opacità e indeterminatezze che hanno fatto anche la sua fortuna interpretativa. Di base però, la sua teoria mostra che, lungi dall’essere espressione di generosità disinteressata, il dono ha valenza strategica e relazionale, una strumentalità intrinseca legata alla nozione di «obbligo e indebitamento reciproco», o, per dirla con Gregory, di «reciproca dipendenza», di una spirale fatale istituita fra le persone. La teoria più avanguardista incrina i luoghi comuni e spodesta le retoriche buoniste,  enfatizzando anche i meccanismi relazionali e i contesti che manifestano il dono come qualcosa di non neutrale e di capzioso. Nel gorgo ammantato di finta nobiltà che stiamo descrivendo una «gift economy» si capovolge sempre in una «debt economy». Per questo le tribù indigene della Nuova Zelanda, come spiegava a Mauss il saggio maori Tamati Ranaipiri, vedono l’obbligo del contraccambio dentro la stessa natura della cosa donata, che, lungi dall’essere inerte e passiva, è dotata di uno «spirito», lo hau, «che peserebbe come una forza esterna sul donatario fino a imporgli di ricambiare». Il dono sarebbe dunque un prolungamento del donatore, la cui traccia e presenza incombe di continuo nella vita del destinatario, con un impellente richiamo al contraccambio.
 
Anche i  Romani avevano sviluppato questa consapevolezza. Lo scambio di doni e beneficia, non era solo una questione privata, ma una prassi socio-economica di reciprocità, con una embedded economy complicatissima legata a «matrimoni, parentela, ospitalità, amicizia e ciclici eventi cerimoniali o festivi». I Romani si scambiavano continuamente doni, come il nuptalicium, il “dono di nozze”, il natalicium, il dono di compleanno; i doni per placare i Mani, le ombre dei defunti, con i Feralia di febbraio e «i giusti omaggi ai defunti», per lo più ghirlande di fiori, spighe e pane inzuppato nel vino, che venivano raccolti in un vaso di terracotta lasciato in mezzo alla via. Alle calende di gennaio ecco le strenae, antenate delle nostre strenne natalizie, doni di buon auspicio per l’anno nuovo.  Si trattava, in origine, «di omaggi piuttosto umili, come datteri, fichi e vasetti di miele, che si sperava “trasferissero” la loro dolcezza all’anno che stava per iniziare; e infatti, secondo Ovidio, la loro causa risiedeva proprio nell’omen di cui erano portatori, dal momento che si offrivano “affinché il loro sapore tenesse dietro agli eventi, / e l’anno trascorresse dolce come il suo inizio”». Durante i Saturnalia, invece, le feste in onore di Saturno che si celebravano a dicembre, era consuetudine che i clientes inviassero in dono ai loro patroni delle candele di cera (i cerei), a indicare che Saturno« li aveva elevati da una vita informe e oscura alla luce e alla conoscenza; ma la scelta di un simile dono, certamente poco dispendioso, fa pensare anche all’urgenza di porre un freno all’avidità dei patroni, che iniziavano a pretendere da clientes e sottoposti doni sempre più lussuosi». E ancora si offrivano regali ai propri ospiti, gli xenia o gli apophoreta, i “doni da portar via”, anch’essi piccoli omaggi, in genere cibo e bevande, ma anche oggetti più esotici e preziosi.
 
Lavinia Scolari ci immerge nella perversione del dono e delle sue dinamiche, riesplorando i miti della vendetta del cinto di Afrodite, con il suo fascinum malefico e rovinoso, e della collana cesellata da Hefesto per le nozze di Cadmo e Armonia che getta disgrazie su chiunque la indossi. Il poeta Stazio parla della forza orrenda scatenata dal rituale magico di maledizione, che suscita il godimento delle Erinni, ma per la rovina della figlia Semele,  attribuisce la sventura anche alle responsabilità̀ della donna improba e alle ire di Giunone. Resta che la combinazione di dono e femminile, nel mondo antico, è avvertita come un binomio profondamente sovversivo, valga per tutti il vaso di Pandora, la tutta-doni, che riceve talenti dagli dei, ma fa ricadere sofferenza e scompiglio sugli uomini. L’avvincente capitolo 3 Donne che donano mostra come il dono utilizzi l’inganno sfruttando la fides nei valori sacre e nelle persone. E’ Medea, la donatrice funesta per eccellenza, a esemplificare questa configurazione. Negli Argonautica di Apollonio Rodio suo fratello Apsirto, è mandato in inseguimento dal re Ete, per impedire la sua fuga con l’amato Giasone, dopo che questi ha conquistato il vello d’oro. Questi è spinto dalla sorella ad aggirare Apsirto con i «doni ospitali», tra cui c’è il peplo purpureo di Ipsipile, di incomparabile splendore, considerati sacri come il vincolo che esprimono, quello che Apsirto, erroneamente, pensa che i due amanti non oseranno violare. Qui Medea attua una delle strategie fondamentali quella di attirare la vittima nella trappola, il cui strumento prototipico è il dono.
 
Nella maggior parte dei miti il dono funesto danneggia principalmente il destinatario, a volte il donatore, più di rado, un terzo attore come accade ad Ercole, ad esempio, subisce le conseguenze dello scambio tra Nesso e Deianira come Anfiarao e Alcmeone patiscono quelle del dono di corruzione che Polinice e Tersandro offrono a Erifile. Ma non è la drammaturgia del dono, legata agli attori in campo e alle sue conseguenze pratiche a interessare gli antichi Romani, bensì il pericolo insito nei doni. Nella riscrittura latina dei racconti greci  si insiste sulla categoria, tutta romana, della fides, della fiducia che «sembra qualificarsi come la principale virtù chiamata in causa nelle dinamiche di donazione, specie in conseguenza di una promessa, o in occasione di un contraccambio». Questo fa da base allo sviluppo di due idee di dono: pignus e munus. Se «il dono “positivo” implica il rispetto virtuoso dei vincoli di fides, quello negativo o funesto si relaziona alle diverse forme della sua trasgressione». Rivelando come i Romani fossero molto più preoccupati dell’etica connessa al donare, del vincolo sacro della reciproca fiducia. Il dono è infatti l’unico tremendo strumento capace di corrompere la fides, l’unica virtù che invece può spezzare la spirale fatale in cui la strumentalità del dono ci imprigiona senza via di uscita.
 
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