Laura Pugno: «Racconto un'isola dove i morti ritornano e i vivi rinascono»

Laura Pugno: «Racconto un'isola dove i morti ritornano e i vivi rinascono»
di Paola Del Vecchio
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Sabato 8 Settembre 2018, 13:42
MADRID - «Nei miei libri c’è sempre un’indagine di confine, la ricerca di qualcosa che non è stato ancora espresso ma si comincia a pensare. Ne "La metà di bosco" si esplora un altro territorio ancora, un luogo di passaggio verso l’altrove. Per me le porte fra i mondi sono aperte. Non vedo differenze fra realistico e fantastico, così come non potrei leggere in modo diverso "l’Iliade" o "La Gerusalemme Liberata"». Laura Pugno (Roma, 1970) parla del suo ultimo romanzo, "La metà di bosco" (Marsilio) che apre nuovi spiragli sul suo perturbante universo letterario. (Il libro del mese per "Fahrenheit" di Radio Tre). E se ne "La ragazza Selvaggia" o in "Sirene" il confine scandagliato era quello fra l’umano e l’animale, qui il lettore si inoltra, fra stato di veglia e incoscienza, su un terreno dove umano e non umano, animale e divino convivono.

Racconta di Salvo, medico che cura l’insonnia altrui, ma dalla separazione ha perduto il sonno. E, per sanarsi, accoglie l’invito di un amico ad andare in un’isola greca, dove trascorrevano le estati da ragazzi. Ad Halki recupererà vigore nella vecchia casa dell’ulivo, condivisa con Nikos, il figlio sedicenne di Magdalini che non accetta la nuova gravidanza materna, e la bionda ed eterea Cora. La ragazza scompare durante una gita alla vicina isoletta di Krev, per metà riarsa dal sole, per metà boschiva e inaccessibile. Quando il mare restituirà il suo corpo, Cora risulterà uccisa da colpi d’arma da fuoco. Il noir è però solo un pretesto. «Gli abitanti del luogo custodiscono un segreto: sull’isolotto talvolta i morti ritornano, non incorporei, ma con una fisicità naturale, inquietante, prima di allontanarsi del tutto. E i vivi possono incontrarli brevemente», rivela l’autrice, direttrice dell’Istituto italiano di cultura di Madrid, attesa a Pordenonelegge il 22 settembre per un reading su "Le parole del ’68: l’immaginazione", in concomitanza con l’uscita di una raccolta di poesie per Lietocolle. «I morti non possono lasciare Krev, ma per i vivi è pericoloso restarci», riprende. «E poco a poco la vicinanza impossibile porta ad accettare l’inevitabile: la necessità di lasciare andare chi si ama».

Qual è stato lo spunto del romanzo?
«Anni fa rimasi colpita dai cartelli a Roma per le ricerche di un adolescente straniero. Mi feci l’idea che fosse sparito attraversando un braccio di mare. La scomparsa è uno dei miei temi ricorrenti: riguarda sempre donne giovanissime, che rappresentano la potenzialità».

Il viaggio di Salvo è anche il ritorno a una natura primigenia, quasi indifferente, che apre le porte all’arcano…
«Inizialmente l’avevo ambientato alle Canarie, quando ci furono emersioni di rocce vulcaniche al largo dell’arcipelago. Poi ha preso forma quest’isola in Grecia, la terra del mito, dove futuro remoto e passato arcaico si toccano. Ma l’ho tratteggiata a tinte molto più fosche dell’attuale, come un paese dove il cammino di perdita provocato dalla crisi ha ridotto gli standard di sviluppo cui siamo abituati e rende i contatti con la civiltà più difficili. Crediamo di conoscere la Grecia per vicinanza, studi classici, storia comune. In realtà non è così, non parliamo la lingua, sappiamo poco della storia recente. C’è anche l’idea di un nostro passato che diventa alieno, e che ciò che ci è più familiare è invece estraneo, perturbante».

La quiete sull’inselvatichita Halki nasconde una suspense incalzante. È la porta di accesso a mondo dove il medico si trova a sperimentare la guarigione dalla morte, una sorta di nuovo ritorno?
«Più ci si addentra nel libro, più gli indizi di pericolo sono evidenti. Non appena mette piede sull’isola, Salvo è risanato, il suo corpo sembra sapere cosa fare per guarire. Ma quando la lascerà sarà una persona diversa. Krev è un luogo di iniziazione, di risveglio e rinascita. Questo romanzo ha in comune con gli anteriori un ritorno impossibile, perché nel frattempo è avvenuta una trasformazione. E chiude un ciclo della mia scrittura».

Il personaggio di Magdalini ha una femminilità intensa. La sua maternità sembra avere un che di feroce. La sua natura non si può addomesticare né razionalizzare, è così?
«Sì. Peraltro io credo che l’amore sia feroce. Quello passionale, come quello materno, è un sentimento contrassegnato dall’intensità ma anche dalla determinazione ad agire. L’amore non ti viene in cerca, semmai è qualcosa che tu scegli di fare. Magdalini è originaria dell’isola, vi torna, ma ha vissuto nel mondo. È il personaggio che preferisco. Riesce a mediare fra la dimensione cosciente, interna, e quella esterna dell’isola, che può essere superstizione, leggenda. Incarna il selvaggio, ed è ponte con lo straniero».

La morte, la perdita della gioventù e l’ingresso nell’età adulta: Krev è anche metafora della necessità di elaborare il lutto rimosso dalla nostra società?
«Sì, sicuramente il luogo è anche un tempo. Ma non c’è senso di tragedia. I miei libri non sono consolatori e tuttavia sono la possibilità di un’apertura. Ne La metà di bosco è l’aprirsi alla vita che continua e, come il mare, armonizza e assorbe in sé tutto, anche la perdita e il lutto, per quanto doloroso, bruciante e atroce possa essere».

Laura Pugno nasce come poeta. In che modo questa cifra influisce sulla sua narrativa?
«Determina soprattutto un’estrema sensibilità alla lingua. La poesia è un’esplorazione ai confini del linguaggio, un momento primo al quale non posso rinunciare. E’ qualcosa di vero che si manifesta in te. E dalla poesia si torna con un bottino che, attraverso la prosa, viene condiviso con altri».

A ottobre uscirà anche un suo saggio su "Il selvaggio - corpo, romanzo, comunità” nella nuova collana 'Trovare le parole' di Nottetempo. Cosa può anticipare?
«Rifletto intorno alla domanda su come mai la letteratura abbia smesso di essere sinonimo di andare oltre, di inoltrarsi nel bosco o anche alla ricerca del Graal, e sia diventata, invece, una sorta di lenitivo, di placebo. C’è del vero nel fatto che siamo sempre noi, come comunità, a definire ciò che siamo. E il primo luogo selvaggio che sperimentiamo è il nostro corpo, il primo territorio dell’indomabile, dell’ingovernabile, su cui non abbiamo controllo. Non è un saggio tradizionale: è stato un esercizio di scrittura molto singolare, una specie di conversazione seguendo l’andamento del pensiero».
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