"La famiglia Aubrey", Il ritorno di un grande romanzo familiare tra disagio economico e rottura degli schemi

"La famiglia Aubrey", Il ritorno di un grande romanzo familiare tra disagio economico e rottura degli schemi
di Andrea Velardi
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Sabato 6 Ottobre 2018, 23:08
 
La famiglia Aubrey di Rebecca West è il primo volume di una trilogia fortunata, romanzo sulla tensione continua fra inquietudine e spensieratezza nella vita quotidiana,  il cui basso continuo è una tenerezza con cui l’autrice descrive gli affanni e le tensioni interne ed esterne di una famiglia peculiare e fuori dal comune che si trasferisce dal Sudafrica a Londra, dopo una parentesi vacanziera in una fattoria sulle Pentland Hills a sud-ovest di Edimbrugo, alla fine dell’Ottocento, appresso alle alterne fortune del capofamiglia Piers, giornalista febbrile e polemista politico, dal difficile  posizionamento editoriale e in preda al vizio del gioco. La lettura verrebbe falsata se si limitasse al dettato terso e leggero, alla narrazione piana, a tratti monotona, alla disposizione delle scene e dei tempi sapiente, ma troppo condizionata dall’inquadratura costante, superficialmente zuccherosa, morbida, carezzevole, a la maniera de Le piccole donne crescono della Alcott.

Il libro nasconde in profondità un’ intenzionalità più decisa, che lentamente si rivela dopo lunghe pagine, con quella calma con cui vengono scomposte sensazioni ed emozioni - che è stata giustamente messa in rilievo da Baricco-,  intessendo le simmetrie delle problematiche familiari, esponendo le tortuosità della psicologia umana, in una miscela di fiabesco e di tragico, di dolcezza e di amarezza, di ironica commedia e nostalgico dramma, con la restituzione della innocenza  e della sofferenza dello sguardo di bambini capaci di leggere il mondo degli adulti con consapevolezza tremenda, spietata trasparenza, tenera accettazione dei loro errori e perfino dei loro reati, come accadrà nella parte finale. Insomma la semplicità del racconto, la modalità sentimentale e indulgente con cui viene intessuta la trama di eventi, tutti racchiusi entro lo spazio di visibilità e sensibilità dei bambini de La famiglia Aubrey, rapportato alla loro progressiva presa di coscienza degli snodi spinosi dell’esistenza, possono rendere nervoso il procedere della lettura, ma la superficie volutamente edulcorata non deve occultare la visione complessa del tema familiare, la critica agli schemi della devozione e sottomissione femminile all’interno della società borghese dell’Ottocento, nonché il tema della esaltazione della musica come rifugio supremo e delle conseguenze dell’eccentricità del talento culturale e artistico. Una visione complessa che emerge in filigrana e poi esplode nella parte finale di un libro che scorre inesorabile per centinaia di pagine con una narrativa minimale, un andamento e un’ambientazione ben incorniciati con un setting stabilizzato dentro la casa degli Aubrey e qualche occasionale uscita.
 
Del resto Rebecca West è stata una scrittrice britannica longeva e prolifica, che ha analizzato con acume polemico e ribelle il suo tempo. Cicely Isabel Fairfield (1892-1983), questo era il suo vero nome, si è appassionata strenuamente alla causa femminista, dentro uno scenario molto più complesso tanto da ricavare il suo pseudonimo da Rosmersholm, dramma del 1886 del grande drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, in cui l’austero pastore protestante Johannes Rosmer, rinuncia alla sua missione dopo il suicidio della moglie Beata e si innamora di Rebecca West, un’ eroina spregiudicata, controversa, immorale, che ha perduto in sé ogni traccia residua dell’etica legata alla religione cristiana, la quale corrode i valori dello stesso Rosmer in una storia passionale che lo illude e gli fa esaltare la felicità terrena per poi finire tragicamente quando Rebecca confessa di essere stata lei a far impazzire Beata e indurla al suicidio. Sarebbe interessante capire se Cicely Isabel Fairfield prende il nome di Rebecca West in polemica con la visione moralistica di Ibsen, ispirata al massimalismo dell’imperativo categorico del pietista Kant, e che vuole la felicità della vita strettamente legata alla purezza di condotta e rettitudine di vita.  Oppure in adesione ad un credo superiore che spinge ad una severa critica antropologica.
 
Ma torniamo al romanzo. Il padre Piers Aubrey è un uomo duro e gentile,  acceso polemista, giornalista impegnato, con buon successo in una ristretta ricerca di pubblico, visionario cultore di idealità, con il vizio del gioco in borsa, capace di impegnarsi di nascosto dalla moglie tutti i mobili stile impero appartenuti alla zia. Il provvidenziale intervento dell’imprenditore Morpurgo gli permette di ritrovare un lavoro come direttore presso il piccolo giornale locale Lovegrove Gazzette, di cui è proprietario. Clare la madre sempre affannata e trasandata, comprensiva verso l’eccentrico e problematico marito, con tutte le conseguenti inquietudini e nevrosi connesse oltre che alla sopportazione del continuo stato di bisogno, al suo temperamento artistico,  è  stata una pianista di talento  e ora desidera legare il destino dei figli ad uno strumento musicale facendoli studiare,  come è accaduto a lei, in una scuola prestigiosa. Tocca il piano alle gemelle Mary e Rose, la voce narrante del libro, ragazza premurosa, consapevole, attenta, pervicace; il flauto al fratellino più piccolo Richard Quin; il violino a Cordelia, troppo vicina alle caratteristiche paterne, attorno a cui si concentrano le insofferenze e gli strali, anch’essi troppo patetici e risibili, delle sorelle e della madre, vestali di un culto romantico e fanatico per la musica classica, che vedono in lei una totale assenza di talento mista ad una patetica e velleitaria voglia di successo insufflata dall’appassionarsi delirante della sua insegnante la signora Beevor che vede in lei invece una bambina prodigio e dalla finta insipienza con lui vi corrisponde.
 
La famiglia trova un’impossibile felicità nei riti festosi della convivialità, nei percorsi dell’immaginazione, nella lettura  serale de Le mille e una notte, e dei romanzi ottocenteschi presenti nella loro biblioteca, tra cui Madame Bovary di Flaubert di cui Clare vagheggia a volte frasi ed episodi, della musica, vera regina di casa Aubrey e di questo romanzo capace di sovrastare un contesto di ristrettezza e continua allerta per i debiti tra un Carnevale di Schumann idolatrato da tutte le appassionate, i Lieder di Schubert, una sonata di Beethoven. E c’è spazio pure per la divinazione, la predizione del futuro con infatuazione per il gotico e qualche incursione nel Poltergeist da parte della madre e di Rose. Il mondo viene filtrato attraverso i personaggi di Shakespeare, il candore delle memorie e delle immagini non si traduce in ottusità e le tribolazioni non impediscono agli Aubrey, cortesi e ospitali, di aprirsi alle sfortune e altrui, come quelle dell’amatissima cugina Rosamund, in un crescendo improvviso e inimmaginabile.
 
Verso la fine l’istitutrice di musica Queenie Philips si innamora del signor Mason, impiegato di una società immobiliare, uccide il marito, eccentrico affarista di successo, viene condannata all’impiccagione a causa di processo ingiusto. Piers si muove per impedire il peggio, striglia il signor Pennington della Camera dei Comuni, collaboratore del Ministro degli interni e parente del Primo Ministro. Scrive per quel gruppo di parlamentari il pamphlet delirante ma profetico su «Il futuro dell’Europa e la politica estera», che Pennington però si rifiuta di pubblicare. Il volto di Piers diventa cupo e scarno, la sua scrittura entra in una dimensione di indifferenza ed estraneità alla famiglia. Rose lo descrive in questa implosione dentro cui però qualcosa si agita fino a spingerlo a scomparire all’improvviso portando via del denaro, gettando tutti nello sconforto. Clare vende i ritratti delle antenate di famiglia e prende in mano la situazione, mentre le figlie vagheggiano un destino nel mondo della musica e Richard tenta l’assolo di Orfeo ed Euridice di Gluck per il flauto, le cui note si propagano come il “richiamo di una giovane civetta in una notte d’estate”.
 
 
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