Uomini che uccidono le donne, 6: l'amore, l'inganno e il treno fantasma

Uomini che uccidono le donne, 6: l'amore, l'inganno e il treno fantasma
di Roberto Costantini
6 Minuti di Lettura
Venerdì 19 Agosto 2016, 13:09 - Ultimo aggiornamento: 13:14
IL THRILLER
ANNA BIANCHI
Monica non si limitava a fare la commessa, la cassiera, la responsabile della boutique. Si ostinava a volermi fare da sorella maggiore anche se eravamo coetanee. In passato le avevo raccontato dei miei ragazzi, ma questa storia con Marco no, mi vergognavo a confessarle che ero andata a letto con lui la prima sera che ci ero uscita. E quel giorno ero passata dall'estasi al tormento nel breve minuto in cui il test di gravidanza mi aveva detto che aspettavo un bambino.
Avevo trascorso il pomeriggio in boutique in uno stato tragico, tra corse al bagno per vomitare o per piangere, vecchie clienti americane troppo obese e giovani clienti asiatiche troppo basse per i nostri abiti. Monica mi aveva invitato più volte ad andarmene a casa, che avrebbe pensato lei a chiudere, ma io non potevo, visto l'appuntamento con Marco. Cinque minuti prima della chiusura mi avvicinai a Monica.
Ti dispiace se esco cinque minuti prima?
Hai appuntamento con lui?
Ero stravolta e lei non sembrava curiosa ma davvero preoccupata per me.
Sì, mi sta aspettando a piazza di Spagna.
Monica annuì.
Va bene, ma sono stanca anche io. Chiudiamo e ce ne andiamo.
Mentre chiudevamo tutto fui assalita dall'orribile dubbio che lei mi proponesse di presentarle Marco. Invece mi fece un buffetto sulla guancia, gettò lì un passa una buona serata, e svoltò al primo angolo mentre io mi avviavo verso piazza di Spagna.
Ero certa che Marco avesse usato quelle poche ore meglio di me. Io ero quella idealista, romantica, appiccicosa e rompiscatole. Anche se con lui avevo indossato una maschera e tutte queste cose di me non le aveva viste. Lui era quello forte e razionale.
E mi amava. Avevo letto da qualche parte che le persone forti e razionali sono capaci di trasformare un problema in un'opportunità. Forse mi avrebbe stretto tra le braccia, mi avrebbe guardata negli occhi e mi avrebbe detto sposiamoci e facciamo nascere nostro figlio.
MARCO RUBINI
La pessima notizia che Anna mi aveva dato via skype all'ora di pranzo si era sommata al suo reggiseno verde che la nostra colf Filippina aveva trovato nel mio trolley dopo il fine settimana con lei a Sabaudia.
Devi abortire Anna, subito.
Mi ero preparato a quell'incontro ripetendomi quella frase ossessivamente, come un mantra. E me la ripetevo anche ora, mentre me ne stavo in mezzo a Piazza di Spagna tra i turisti e vedevo Anna avanzare lungo via Condotti.
Una figuretta esile e ben proporzionata con un seno extra,che stava cercando di incastrarmi con una gravidanza. Conoscevo abbastanza le donne e non volevo correre rischi. A quella frase, a quella conclusione, abortire subito, dovevo portarcela, non imporgliela.
Ci abbracciammo a lungo in mezzo alla piazza. Andava bene così. L'abbraccio comunicava affetto e vicinanza, il silenzio confermava che quel bambino inatteso non era una gioia da festeggiare, almeno per me.
Mentre ce ne stavamo lì, mi sentivo osservato da centinaia di occhi. Ed ero inquieto.
Prendiamo un taxi e andiamo nel bar davanti alla stazione, Anna. Così possiamo parlare un po' in pace e io non perdo l'ultimo treno per Milano.
Sul taxi ci tenemmo per mano e nessuno dei due disse una sola parola, come se il tassista fosse lì per spiare e denunciare il nostro complotto ai danni di quel figlio che avremmo presto soppresso.
Ci fermammo in un bar a un centinaio di metri dalla stazione e ci sedemmo fuori. Ordinammo, poi lei mi prese la mano.
Mi dispiace, Marco. Davvero, è colpa mia.
Bene, era un inizio promettente ma dovevo stare attento.
Non è solo colpa tua, Anna. Io comunque ti sono accanto per affrontare il problema.
Nessuno dei due sembrava pronto a venire al punto, a pronunciare quel verbo, abortire.
Io vorrei tenerlo, Marco. Se tu.
Mi strinse più forte la mano e in quel momento pensai tante cose. Che ero stato un idiota, che la follia femminile non aveva limiti, che era inutile cercare di essere diplomatici, che forse anche il reggiseno nel mio bagaglio era opera sua.
Anna, hai disfatto il tuo bagaglio dopo che siamo tornati ieri da Sabaudia?
Lei mi guardò perplessa, come se fossi impazzito.
Scusa Marco, cosa c'entra il mio bagaglio?
Lo hai disfatto o no?
No, non ancora. Ieri sera ero stanchissima e questa mattina dovevo sbrigarmi per essere puntuale al negozio. Ma non possiamo parlare del bambino?
Il bambino!
Lo chiamava già così, come se fosse vivo, seduto a quel tavolo lì con noi. Decisi di fare un ultimo tentativo.
Anna, ma se tra noi può nascere una storia importante non possiamo farlo costretti da un evento indesiderato.
Ecco, l'avevo detto, un evento indesiderato. Lei assorbì quelle parole e il suo volto si indurì. Ora ne ero certo, aveva fatto tutto apposta, con la spregiudicatezza della trentenne alla ricerca dello scapolo d'oro. Solo che io non ero lo scapolo d'oro e non ero un fesso.
Non vuoi il nostro bambino.
Non era una domanda. Era un'accusa. Niente da fare, erano tutte uguali e non era il caso di mettersi a discutere lì al tavolino di un bar all'aperto.
Tirai fuori il portafoglio, misi dieci euro sul tavolo e mi alzai. Gettai un'occhiata all'orologio.
Devo andare. Non posso perdere il treno.
Lei si alzò e mi abbracciò, o piuttosto si aggrappò a me.
Ti accompagno al treno?
Era l'ultima cosa che volevo.
No, è tardi, ti accompagno alla metro così vai a casa e ti riposi.
Quando la lasciai con un bacio sulla fronte davanti alle scale della metro e mi avviai verso l'interno della stazione sentivo gli occhi di Anna sulla mia schiena.
ANNA BIANCHI
Guardai Marco allontanarsi, entrare nella stazione, scomparire. Ero mortificata, costernata, avvilita. Marco non voleva il bambino. Sapevo perfettamente che da un punto di vista strettamente razionale aveva perfettamente ragione. Ci conoscevamo solo da due mesi e anche se tutto andava benissimo, un bambino era un salto in avanti, un salto nel buio.
Ma il vero amore non è proprio questo? Un salto nel buio?
Io ero come la mia omonima Anna, l'eroina di quei romanzi di Giulia Testa che divoravo avidamente, quella giovane donna che rispecchiava esattamente ciò che ero, un essere sensibile alla ricerca di un essere sensibile con cui vivere. Forse avevo sbagliato con Marco a mettermi la maschera di ragazza più facile, sempre allegra, mai una protesta per la lontananza. Avevo sbagliato perché non era la mia vera natura e non si può vivere contro la propria natura.
Io sono un'altra. E sono innamorata di lui. Che devo fare?
Le mie gambe iniziarono a muoversi, scollegate dal mio cervello. Mi portarono dove c'eravamo incontrati solo tre giorni prima, per partire per il nostro fine settimana a Sabaudia. Sotto la statua di Giovanni Paolo II. Ero credente, ma non praticante. Ogni tanto entravo in una Chiesa e pregavo. Mi concentrai, guardai il volto di Wojtyla.
Ti prego, Santità, dimmelo Tu, cosa è giusto che faccia?
Fu in quel momento che vidi Marco. Usciva dalla stazione a passo svelto.
Ci ha ripensato. Non parte. Va a prendere un taxi e mi viene a cercare a casa mia.
Feci per corrergli incontro ma di colpo lui svoltò verso via Giolitti nella direzione opposta ai taxi. Non mi chiesi nemmeno cosa stesse accadendo. Semplicemente le mie gambe ripresero a camminare. A seguirlo, a distanza.
Lo vidi entrare nella rampa di un garage a pagamento. Non capivo, il cuore mi batteva all'impazzata e il sangue sembrava correre velocissimo dentro di me. Passò qualche minuto, poi una di quelle belle auto sportive senza tettuccio spuntò dalla rampa. Alla guida c'era il mio Marco, l'uomo che non guidava da oltre dieci anni dopo un tragico incidente.

6-continua
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