Le isole remote che fanno sognare: da Trindade a Sant’Elena gli scogli più irraggiungibili e misteriosi della terra

Le isole remote che fanno sognare: da Trindade a Sant’Elena gli scogli più irraggiungibili e misteriosi della terra
di Renato Minore
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Venerdì 18 Settembre 2015, 21:24 - Ultimo aggiornamento: 24 Settembre, 12:23
Esistono luoghi talmente lontani da poter esser solo pensati. Trindade, Howland, Socorro, Deception, Solitudine: nomi suggestivi ma spesso di scarsa fama e pressoché sconosciuti che, sulle mappe nautiche, individuano scogli accerchiati da continenti d’acqua. Sono i più irraggiungibili della Terra, isole più isole di altre, distanti cosi tanto dalla terraferma che gli atlanti spesso non le considerano o dedicano loro un riquadro fuori scala oceanica.



A queste isole, “alle cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò”, alle storie immaginarie e insieme reali che vi sono legate, sperdute nei tempi e negli oceani, Judith Schalanky ha dedicato un fortunato, splendido catalogo che ora torna in una nuova versione presentato a Mantova, al Festivalletteratura: è l’”Atlante tascabile delle isole

remote” (Bompiani, 15 euro, 240 pagine) che, in un’epoca di congestione turistica, quando sono continuamente disintegrati gli spazi e i tempi della lontananza, ci restituisce alla poetica cartografica del viaggio mentale con un libro di racconti e disegni che tanto sarebbe piaciuto a Calvino o a Borges.



Dal mar glaciale Artico all’oceano Atlantico, dall’oceano Indiano e Pacifico fino a quell’Antartico, è un diario di viaggi passati e futuri, sognati e mai realizzati, comune a tutti è il colore sullo sfondo, l’azzurro del mare. E’un viaggio alla ricerca di punti sperduti negli spazi bianchi delle cartine geografiche che diventa anche un percorso di comprensione e di documentazione in cui si fondono storia e leggenda per cinquanta fazzoletti di terra, lambiti e schiaffeggiati da uno sterminato mare d’acqua, del tutto inaccessibili, non a portata di telecomando e di Google Earth. “Chi apre le pagine di un atlante non si limita a cercare i singoli posti esotici, ma desidera smodatamente tutto il mondo in una sola volta. Il desiderio crescerà sempre di più, e sarà più grande della soddisfazione ottenuta attraverso il raggiungimento di ciò che si è tanto agognato. Ancora oggi preferisco un atlante a ogni guida di viaggio”, scrive la Schalanky che è nata nella DDR, un paese scomparso dagli atlanti e anche per questo confessa di coltivare il gusto per i viaggi sulle mappe. Ogni isola è una vicenda che attraversa il tempo, una promessa del destino e spesso dall’esito fatale, con “navigatori con gli occhi persi in un abbaglio di conquista, sonnambuli che salpano verso la catastrofe, traditi da un mare cieco e inesorabile”. Ogni isola è come uno spazio teatrale dove si condensano assurdità umane che di solito si disperdono nella sconfinatezza dei continenti, dove possono nascere anche piccole tirannidi, laboratori per dittature tascabili, destinate a diventare incubi, o monarchie con un solo suddito, o nessuno.



Così si rincorrono storie di naufragi, di tragedie, di sofferenza, dalle cronache dei primi avvistamenti o dei primi sbarchi, alla stazione meteorologica ex-sovietica abbandonata sull’isoletta artica di Ostrov Uyedineniya (Isola della Solitudine), alla spedizione d Sant’Elena per recuperare le spoglie di Napoleone. C’è la tragicomica esperienza della

spedizione di astronomi francesi fino a Campbell Island (nuova Zelanda) nel 1874 per vedere il transito di Venere davanti al sole. Ma il cielo al momento clou si copre di nuvole e gli astronomi che han fatto un viaggio così lungo non vedranno nulla. Oppure la storia di Magellano che nel 1521 arriva per primo all’isola di Napuka (oggi nella Polinesia francese) alla ricerca disperata di acqua e cibo, ma non trova nulla e per questo le dà il nome di “Isola della delusione”. Non mancano le “celebrità” come Iwo Jima, l’Isola di Pasqua, la Pitcairn dove vivono i discendenti degli ammutinati del Bounty (“restare qui è solo un altro modo di morire” è il lapidario bilancio del loro comandante). Ma a prevalere sono le altre, quelle che divampano nella fantasia per un singolo episodio, per un istante fatato sospeso tra secoli di vento e silenzio. A Takuu in Nuova Guinea è la terra stessa a scomparire lentamente sommersa dalle acque, i vecchi non credono che accadrà davvero e i giovani, incoscienti e rassegnati, passano le giornate a bere succo di cocco fermentato al sole. La trasvolatrice dell’Atlantico Amelia Earharth doveva fare tappa sulle coste della piccola isola di Howland, Isole della Fenice, per rifornirsi, ma non è mai arrivata, sparita anche dietro la linea virtuale dell’ultimo fuso orario, quello del giorno prima. Sarah Joe è la barca di Scott Moorman, un giovane americano che ha deciso di lasciare il continente per una nuova vita alle Hawaii, la trovano dopo anni sulle spiagge deserte dell’isola di Taongi alle Marshall, vicino c’è la sua tomba improvvisata di Scott, nessuno sa perché sia finito lì.



C’è l’isola fatta di isola, costruita dal lavorio devoto dei coralli, “monumento a una piccola isola” affogata per dissidi tra mari e vulcani. O l’isola ormeggiata all’utopia (“Le rivoluzioni sono proclamate sulle navi, le utopie sono vissute sulle isole”): Tristan da Cunha, dove Arno Schmidt vede arenarsi il sogno di dar carne e vita alla società ideale romanzata da Schnabel nell’“Isola di Felsenburg”. O ancora Rapa Iti, dove si parla una lingua che a migliaia di chilometri da lì, in Bretagna, un bambino ha misteriosamente imparato in sogno; e dove, trentenne, si trasferirà con l’anziana polinesiana che ha riconosciuto l’idioma, chiedendola in sposa perché è “l’unica che lo capisca”.