Ma il punto è proprio questo. Siamo sicuri che 140 caratteri siano ormai la forma più significativa e sensibile che abbiamo per definire il mondo, le relazioni, le fenomenologie del quotidiano, affetti e abitudini? O non siamo piuttosto perennemente sospesi sul ciglio di un baratro che la comunicazione globale, con le sue sincopi e le sue superfici lisce e saponose, rende sempre più impervio, pronto a farci scivolare in basso senza più intenderci su quel minimo umanamente indispensabile che garantisca libertà, diritti, vita, rispetto, democrazia?
Il libro, nella sua impalcatura teorica e operativa, si pone nel punto di interstizio fra un vocabolario forse morente e all’eclissi, e una accelerazione tutta postmoderna che non sta portando giovamento ai nostri interrogativi esistenziali e alle nostre urgenze politiche. E’ proprio lì, in questa rupture metodologica, tirato come una corda, che può spezzarsi o trasformarci in acrobati del futuro, fra valori che ancora vorremmo impugnare e divertissement lessicali, divoranti e speculari. E Niola fa un po’ da podista e un po’ da custode, un po’ da traghettatore e un po’ da saggio meditativo, ed è forse in questo la bellezza del suo testo (seppur con qualche ricaduta in stilemi e concetti che si ripetono e che tolgono talvolta freschezza alla lettura). La semiotica granulare, liofilizzata e anchilosata alla quale siamo (tristemente) abituati, quella degli hashtag appunto, che forse dischiudono possibilità ma fanno scattare il catenaccio di nuovi universi sterili e claustrofobici, è come contraddetta dai parametri che l’autore stesso usa come cassetta degli attrezzi per procedere. Ovvero, circa 160 capitoletti, ognuno lungo qualcosa come una decina di “cinguettii” classici, per uno sviluppo di 330 pagine. Non è un inno al sermoneggiare, ma nemmeno la conferma del nodo di istante/istinto che la twitter-twister-mania, ciclonica e irreale, imporrebbe a tutti. Dunque la “polverizzazione” dell’”organismo saggistico” cui Niola concede righi importanti nelle prime pagine sembrerebbe scongiurata. La razionalità discorsiva della sua scrittura, la coerenza scientifica ed esteticamente gradevole, la sobria ironia frutto di riflessioni vissute in prima persona, la dialettica argomentativa, insomma, non sembrano essere ferri arrugginiti, kit obsoleti di sopravvivenza, ma attitudini del pensiero e della parola, belle e travolgenti, che ancora possono conferire alle cronache di un “paese connesso” – Niola docet - un focolaio euristico e assiologico pronto a riscaldare le nostre coscienze. Per tanto altro tempo ancora. Si spera. Alla faccia delle “interfacce”. Che l’hashtag resti quello che è allora, pena la sua trasformazione in un dash-tag (per citare simpaticamente un noto detersivo-cult), ovvero uno strumento di finto dialogo che candeggia, snatura e depura ogni soggettività, che ci netta e ci annette a un Sistema vertiginoso di contatti e contagi dove ciò che ci sembra più vicino e a portata di mano è terribilmente più estraneo e mostruoso che mai.
Marino Niola “Hashtag” (Bompiani, pagg. 329, euro 13)
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