Niente gialli, meglio Aldo Fabrizi e Orson Welles: ecco le recensioni cinematografiche di Elsa Morante

Niente gialli, meglio Aldo Fabrizi e Orson Welles: ecco le recensioni cinematografiche di Elsa Morante
di Renato Minore
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Lunedì 27 Marzo 2017, 20:47 - Ultimo aggiornamento: 28 Marzo, 20:24
“Miracolo a Milano”? Un film che “crede alle fate”. “Roma città aperta”? C’è una convenzionalità che non corrisponde ai veri sentimenti del popolo”, quei “valori che non sono solo pane e fagioli quotidiani o il ritrovamento di una bicicletta rubata, ma qualcosa di più ambizioso, di più lontano magari oscuro alla coscienza che spinge alla rovina”. “La terra trema”? E’ senz’altro “l’opera più pregevole prodotta dal cinema italiano del dopoguerra”. Ma niente gialli, per carità, fanno parte dei passatempi, “tipo il gioco delle canaste o le parole incrociate”. E invece via libera alla “Cenerentola” dell’Esopo del cinema Disney, alla sostanza leggera e delicata della sua storia che non sopporta la contaminazione con la realtà, al fondo bonario e casalingo che forma la grazia e la poesia del cartoon. E divertiamoci con Aldo Fabrizi, buon romano vero cui l’esperienza dell’età matura ha insegnato tolleranza e pazienza e lo scetticismo iniziale non impedisce l’affettuosa generosità. Disco rosso, al contrario, alle Madame Bovary trasportate sul grande schermo. Meglio che il cinema lasci in pace i capolavori, che grazie ai disegni animati il Gulliver mangiabambini di Swift non diventi uno dei padri del mito infantile, in compagnia dei fratelli Grimm o di Salgari.

Tra il 1950 e il 1951, alla radio, ogni martedì c’è una rubrichina di recensioni che parla di Welles, Ford, Minnelli, Cukor, Capra, Clouzot, Germi e di molti altri film minori e ora dimenticati. La voce “pensosa ma non seriosa, anzi vitale e allegra” è quella di Elsa Morante. La scrittrice di “Menzogna e sortilegio”, uscito nel 1948, in quel periodo ha un accentuato l’interesse per il cinema e ha scritto con Lattuada il trattamento per un film su Miss Italia.

Sono quarantanove le schede che lei redige in cui le capita di elogiare con nostalgia il cinema muto, di affermare ironicamente che il regista Soldati “tiene in serbo le sue qualità di artista per una migliore occasione”. O di riconoscere di aver riso magari dinnanzi a Totò sceicco “per l’aria refrigerata della sala che faceva dimenticar la canicola esterna e non per una vera convinzione”. Ora sono state raccolte per prima volta da Einaudi (“La vita nel suo movimento”, 140 pagine, 20 euro), con un’appassionata presentazione in cui Goffredo Fofi, traccia il complesso rapporto della Morante con il cinema.

La cinquantesima recensione non andò mai in onda. Era una critica a un film, “Senza bandiera” di Duilio Coletti, prodotto da Luigi Freddi direttore di Cinecittà durante il fascismo. In esso la nostalgia degli eroismi bellici non riusciva a celare quella ben evidente per il ventennio mussoliniano, I funzionari Rai avevano prima sollecitato con insistenza la segnalazione del film e poi, secondo un fantomatico nuovo regolamento interno, avevano chiesto alla Morante di addolcire il giudizio. Al suo rifiuto, l’avevano censurata. Finiva la collaborazione radiofonica, così come non si era conclusa bene poco tempo prima l’esperienza di sceneggiatrice. “Miss Italia” era un film “indiscutibilmente e profondamente lattuadiano”, l’apporto di Elsa era nella costruzione del personaggio di Anna che, al termine del suo percorso di formazione, preferisce il lavoro in fabbrica al successo in costume da bagno sulla passerella.

Proprio per il realismo con cui il film avrebbe dovuto affrontare l’esperienza di una giovane di provincia nel circo del celebre concorso di bellezza, mito intoccabile dell’Italia del dopoguerra, Carlo Ponti non aveva avuto fiducia nella “lezione di Lattuada” rivista dall’occhio della Morante sulla “verità” che sa uscire dalla “favola”. Ciò non aveva impedito di sfruttare l’idea per una versione rosa della storia affidata al ben più rassicurante, (sempre lui!) Coletti, uscita nel 1950, sempre con il titolo “Miss Italia”. Sono quelli i giorni in cui Morante scrive che in Italia ci “sono ragionieri che si mettono a fare gli sceneggiatori” e con ironia osserva il popolo che ride sonoramente dinanzi alle immagini familiari dei bagnanti obesi sulla spiaggia di Ostia e fischia dello stesso regista, Luciano Emmer, un documentario su Goya, commentato da Segovia. Il ricordo della fine della collaborazione radiofonica come quello della frustrazione legata alla vicenda del film, hanno forse alimentato (come ha ben osservato Marco Baldini nel saggio”Elsa Morante e il cinema” ETS”) la “cifrata rappresentazione” del cinico e al contempo cialtrone ambiente cinematografaro romano dell’incompiuto romanzo “Senza i conforti della religione” da lei scritto qualche anno più tardi.

Dalle critiche morantiane, che Fofi commenta con molti ricordi personali molto vivi e appassionati, emerge una riconoscibile idea di cinema, imperniata sulla messa in scena della propria esperienza di spettatrice colta e spesso critica, soprattutto nei confronti del registro comico -farsesco, quel regionalismo bozzettistico che mostra «i romani come “gentuccia alla buona e rassegnata". Una critica non eccessivamente tecnica, per Fofi, che coglie poco le novità formali di un autore, ma “sa individuare con molta precisione la visione che lo regge, le idee che lo guidano e da cui si lascia guidare”.

Amante della filmografia d’autore, in primo luogo inglese e francese, ma non indifferente allo star system hollywoodiano e al western, Morante giudica ogni occasione filmica buona “per toccare i temi veri di quegli anni, la bomba atomica o il lager”. Proprio perché vede nel cinema “lo strumento di una cultura di massa in una visione molto esigente della cultura di massa” da cui emerge anche una tensione alla conoscenza di effetti nuovi che attraversano l’intero campo sociale. E anche la forza di una rappresentazione capace di influire sulla società in modi più risoluti e profondi della letteratura, “nel bene e nel male”.
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