Il nuovo libro di Edoardo Albinati: «L'odio non sia ricetta politica»

Il nuovo libro di Edoardo Albinati: «L'odio non sia ricetta politica»
di Andrea Velardi
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Lunedì 8 Ottobre 2018, 19:58 - Ultimo aggiornamento: 10 Ottobre, 15:35
 
«Sapete, sono arrivato a desiderare che morisse qualcuno, su quella nave. Ho desiderato che morisse un bambino sull’Aquarius». Dopo la dichiarazione scioccante del 12 giungo scorso durante la presentazione di  Otto giorni in Niger, alla Feltrinelli di piazza Duomo a Milano,   Edoardo Albinati, approfondisce in «Cronistoria di un pensiero infame» quel blackout comunicativo e morale, l’aberrazione di un pensiero «cinico, spietato». Prima del suo reading romano lo scrittore ne ha parlato apertamente con noi.  
 
Perché nessun intellettuale ha mai sentito il dovere in questi anni di accendersi allo stesso modo per l’indifferenza di Malta, la brutalità della Francia,  il presappochismo dell’Europa e si è invece andati giù duro nella criminalizzazione dell’Italia?
 
Ma, vede, io non credo di essere il Salvatore del Mondo, già ce n’è stato uno e l’hanno messo in croce. Con le mie forze limitate riesco a occuparmi di poche cose: il carcere, dentro cui lavoro, la letteratura, che leggo con passione e cerco di scrivere decentemente, e qualche causa che mi capita di testimoniare direttamente, con i miei occhi, lavorando se possibile sul campo, come nel caso dei profughi. Vivendo in Italia, anche se non faccio politica, non posso essere del tutto insensibile a quello che pensano, proclamano e fanno chi la governa. E’ ovvio che sia così. Quindi se il governo italiano prende provvedimenti che mettono a repentaglio la vita di esseri umani indifesi, io questa cosa la registro. Io non criminalizzo proprio nessuno. Succede piuttosto che qualcuno violi le leggi, e se ne vanti pure!
 
 
In Italia il clima è talmente irrespirabile che anche gli scrittori e le persone di cultura si fanno contagiare dal cinismo, una parola che ricorre in modo martellante nella Cronistoria di un pensiero infame. La cultura e la letteratura dovrebbero essere invece luoghi della riflessione e della comprensione superiore di problemi. Non pensa che la sua uscita nei sotterranei della Feltrinelli possa far venire il sospetto che gli scrittori e gli intellettuali si infiammano solo quando sono condizionati ideologicamente e solo per attaccare un avversario politico? 
 
Boh! Io non sono proprio per niente ideologico e, del resto, quello di cui ho parlato, cioè le vite umane dei naufraghi messe a rischio per un puro calcolo elettorale, secondo me vengono prima di qualsiasi politica, sia essa di destra o di sinistra. Faccio un esempio. Il governo precedente all’attuale, di centrosinistra, aveva siglato accordi che, pur di evitare che sbarcassero sulle nostre coste, hanno fatto finire parecchi migranti nei lager libici, dove gli uomini vengono seviziati e le donne stuprate. Io l’ho detto chiaro e l’ho scritto. E allora, cosa ci sarebbe di “ideologico” nel denunciare questo? La verità dei fatti è quella che è. Ho sempre pensato che il problema della migrazione sia complesso, e non possa essere risolto con gli slogan o con i colpi di mano.
 
Albinati non è mai parso a nessun critico uno scrittore ideologico, né in relazione ai suoi libri, né in relazione alla sua vita e alle sue azioni. Cosa è successo al mite, profondo, riflessivo Albinati, al grande scrittore così rappresentativo della nostra letteratura, Premio Strega 2016 con «La scuola cattolica»?
 
Non è successo nulla a me personalmente: è successo qualcosa al nostro paese, e non solo al nostro! E poi, forse, il quadretto dipinto su di me era troppo idilliaco. Nei miei libri, inclusa naturalmente “La scuola cattolica”, non ho mai nascosto la crudezza, la violenza, anche il cinismo nei rapporti umani. Sarebbe ipocrita ma soprattutto sarebbe cattiva letteratura.
 
Come lei documenta verso la metà del pamphlet, lei ha fatto esperienza sulla sua pelle di quanto odio possa sprigionarsi nei social network, quanto possa crearsi quell’effetto chiamato «sciame digitale» per cui il popolo del web trova un bersaglio su cui scaricare temporaneamente livore e brutalità per poi dimenticare sia l’oggetto che le ragioni di quella raffica furibonda. Non pensa però che, proprio per questo, occorre evitare di contrapporre cinismo a cinismo, infamia ad infamia? 
 
Ma, vede, a me personalmente gli insulti non fanno né caldo né freddo, e io a mia volta io non ho insultato proprio nessuno. Siccome il nostro Ministro di Polizia, per suoi scopi propagandistici, stava giocando sulla pelle dei seicento naufraghi della nave Aquarius, mi sono limitato a immaginare cosa sarebbe successo se quel gioco fosse finito male. Cosa peraltro possibile, e che infatti in seguito è accaduta. Esseri umani muoiono in mare privati di soccorso. Tutto qui, molto semplice.  L’ho confessato senza ipocrisia, quel pensiero. Del resto, io non sono sui social network, non passo il mio tempo a polemizzare o autocelebrarmi o attaccare qualcuno. Non lancio slogan o minacce o altro. Lascio volentieri l’esclusiva ai nostri governanti. Il mio pensiero infame è durato 5 secondi, e l’ho confessato senza vergogna. Il livore come stato d’animo e la spacconeria  come pratica politica, invece, vengono oggi esercitati 24 ore su 24. Se fanno presa su una parte della popolazione italiana, non posso che constatarlo. Ma se anche questo modo di pensare diventerà maggioritario, non potrà mai essere il mio.  Io non possiedo verità precostituite.
 
La «Cronistoria» è insieme confessione dolorosa e pamphlet veemente.  In qualche modo sembra legittimare l’esistenza di un pensiero infame, morboso, malato, ma anche logico e chiaro come quello espresso durante la presentazione alla Feltrinelli. Ma lei tende in qualche modo ad autoassolversi o riconosce pienamente l’errore della frase detta quella sera?
 
Guardi che io non legittimo proprio nulla, mi limito a rivelarlo. Il demone che abita in noi, in tutti noi. Dico solo che gli istinti ce l’abbiamo tutti. Ma non spaccio il mio demone per una cosa buona, per una ricetta politica da seguire. Non sventolo nessuna bandiera. L’odio non può essere una ricetta politica.  Il mio vero errore è stato quello dell’ingenuità: immaginare che costoro, di fronte alla sofferenza e alla morte, la smettessero di fare battute e sghignazzare. Invece continuano, senza alcun imbarazzo. Questo mio peccato, l’ingenuità, lo trovo ben più grave del mio cinismo.
 
Torniamo al libro che stavate presentando insieme a Francesca D’Aloja, «Otto giorni in Niger». In quel libro emerge come i nigerini, pur poverissimi, accolgono un numero impressionante di rifugiati soprattutto dal Mali e dalla Nigeria. Lei è uno scrittore che ha viaggiato molto e ha riflettuto. La politica italiana spesso rimanda a soluzioni che siano interne al continente africano. L’esempio del Niger non può servire per ripensare il flusso migratorio dalla prospettiva dell’Africa anche di quella che non si affaccia sul Mediterraneo, evitando così anche le strumentalizzazioni e lo sfruttamento che alcune organizzazioni e i famosi facilitatori fanno del fenomeno migratorio? Ha qualche cosa da rimproverare anche all’Africa?
 
Molto si dovrebbe rimproverare ai quei governanti africani che hanno depredato i loro popoli soprattutto con la corruzione, intascando il denaro indirizzato allo sviluppo. Ma devo, anche qui, ricordare, che la migrazione africana è già, di fatto, quasi tutta interna: solo il 6 per cento degli africani lascia il continente, la stragrande maggioranza dei migranti si muove all’interno, tra paese e paese. Ma ci sono emergenze soprattutto climatiche, come la desertificazione, che interessano almeno cento milioni di persone, che da qualche parte dovranno pur andare visto che le loro terre stanno diventando poco alla volta inabitabili. L’idea di lasciarli morire di fame e di sete con la coscienza tranquilla, da parte dei paesi ricchi, mi sorprende. Alla fine mi sorprende meno che siano più disponibili i poveri ad aiutare altri poveri.
 
Già in qualche pagina finale de «La Scuola Cattolica» emergeva il rischio di una sindrome del giustiziere, in quel caso il giustiziere del Quartiere Trieste, che anima spesso la psicologia dell’italiano in preda ai mille stressanti ostacoli e alle peripezie della vita quotidiana, soprattutto nelle grandi città come Roma. Lei stesso ne ha fatto esperienza in un litigio infelice e pericoloso raccontato nel libro accaduto sempre nel quartiere Trieste. Come si fa a frenare questa deriva? La soluzione è sociale o interiore?
 
Entrambe le cose. L’imbarbarimento dei rapporti e dei costumi, ad esempio, in una città come Roma è sotto gli occhi di tutti. L’unica soluzione è resistervi individualmente sperando che altri facciano come te. Se vedi che la strada è coperta di immondizia, hai quasi la giustificazione a buttare anche tu le cartacce per terra, tanto, lo fanno tutti… Be’, è difficile, ma a questa tentazione bisogna resistere come singoli individui, per invertire poco alla volta tendenza. Poi magari uno perde la pazienza, è ovvio. Se vedo uno che, tutto tranquillo, lascia il suo cane riempire di escrementi il marciapiedi, cosa devo fare? lasciar correre? girarmi dall’altra parte? litigarci? scatenargli contro il mio doberman (che non ho)? Ogni giorno, uno si trova davanti a queste scelte…
 
«La scuola cattolica» viene tradotta in tedesco in questi giorni ed arriva in Germania, paese dove il tema dell’emigrazione è stato molto dibattuto, dove perfino Julian Nida-Rümelin, ex ministro socialdemocratico della Cultura e professore di Filosofia morale a Monaco, ha scritto un libro sull’etica della migrazione. Come pensa verrà accolto il suo romanzo dai tedeschi? Cosa si aspetta da questo paese oggi al centro della controversia europeista e antieuropeista?
 
Il libro ancora prima di uscire raccoglie molta curiosità. I tedeschi sembrano sul serio interessati a sapere di più dell’Italia, al di là dei soliti stereotipi. Anche noi dovremmo fare lo stesso con la Germania, mettendo da parte le solite filastrocche sui crucchi e sulla Merkel. In realtà siamo un po’ tutti intossicati  dai luoghi comuni.  Io personalmente non ne posso più. Sono stato a Berlino la settimana scorsa ed ero affamato di vedere e ascoltare. E ho incontrato donne e uomini tedeschi che lo sono altrettanto, e aspettano “La scuola cattolica”, come del resto altri libri, film, e persone e notizie dall’Italia, con grandissima attenzione. 
 
 
 
 
 
 
 
 
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