"La vita facile" di Alda Merini, un sillabario dall'adulterio alla vecchiaia

"La vita facile" di Alda Merini, un sillabario dall'adulterio alla vecchiaia
di Renato Minore
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Mercoledì 19 Aprile 2017, 20:06 - Ultimo aggiornamento: 26 Aprile, 19:02
“La poesia va colta sul momento e cotta all’istante, come il pensiero, come l’immagine, prima che si raffreddi e diventi una pietanza fredda.”. E ancora: “Io tengo i soldi nel reggiseno, perché ho il vizio di farmi pagare dai miei amanti, che sono i miei editori: ogni libro mi è costato un reggipetto nuovo. Il ‘delirio amoroso’ mi è costato invece un ricovero in manicomio, dove purtroppo mi hanno tolto anche le mutande”. Sono due aforismi di Alda Merini che si possono leggere ne “La vita facile” che esce a otto anni dalla sua morte. È il suo sillabario personale, dalla A di adulterio alla V di vecchiaia passando per la B di bambola, la G di Gambe, la M di Marilyn, la P di parola, la S di Sonno.

I ricordi del manicomio e la passione di vivere, i segni del tempo (“l’enorme graziosità della vita”) e l’invasamento amoroso, le scarpe dimesse sporche trascurate e i nostri angeli quotidiani “che girano intorno alle meretrici e ai reprobi, ai santi e ai salutisti”. E’ la voce inconfondibile di Alda, malinconica e visionaria, estrosa e romantica con i suoi sogni e le sue tristezze. Le impressioni e le emozioni di una vita nelle pillole raccolte da Chicca Gagliardo e Guido Spaini e illustrate da Carlo Stanga. Ed è l’occasione anche per ripensare a tutta la sua poesia e la sua figura che ancora oggi è tra le più amate tra il popolo del web e il suo nome si rincorre tra i siti e i suoi versi si disseminano un po’ ovunque.

Nella “Vita facile “ ci sono le immagini, i ricordi, le scelte, le impazienze, i furori che permettono di seguirla in tutta la sua vita, nel tracciare quel destino di poeta che Alda Merini non ha mai tradito fin dalla giovinezza. Fra i sedici e i vent’anni era già esperta dei segreti della poesia e della follia incontrando "le prime ombre della sua mente". Non ne aveva neppure venti quando - nel '50 - Giacinto Spagnoletti riconobbe nei suoi versi «un'intensità concettuale, raggiunta di colpo, per via di istinto», e subito accese l'interesse di altri lettori d'eccezione come Manganelli (che fu suo compagno di vita per alcuni anni), Quasimodo e Turoldo . I suoi erano «versi orfici, così settentrionali», secondo Pasolini, da lasciare stupefatti i lettori delle prime raccolte "La presenza di Orfeo", "Nozze Romane", "Paura di Dio". "Tu sei Pietro". E lo stesso Pasolini, prima che per lei iniziasse la dolorosa stagione degli internamenti, faceva il nome di Dino Campana per la consonanza davvero forte «di analogie di langue, di substrato psicologico, e di fenomeni patologici».

Poi la Merini, risucchiata nell'inferno manìcomiale, sparì condannata al silenzio nel buio della follia «Come una talpa>. La sua storia era diventata un rovinoso corpo a corpo con l'universo della malattia mentale, con i suoi codici e i suoi enigmi. Dal '65 al '72 è al Paolo Pini di Milano; poi a Taranto. Tace fino al '79 quando torna all'espressione, alla parola: «penetrare nei baratri umani l'ha liberata» Finalmente ha ritrovato la luce del giorno, alternando e anche mescolando poesie e prosa ( si pensi tra i tanti a libri come “La Terra Santa" “L'altra verità. Diario di una diversa", “Delirio amoroso", e "Il tormento delle figure"” Ballate non pagate” ) in una scrittura straordinariamente inventiva, tesa a un espressivismo incandescente, nel quale esperienza e sogno si risolvono in luminose e sulfuree metafore.

Il "caso" Merini esplode all'improvviso, con un coro di consensi autorevoli che gridano alla resurrezione artistica. Ma non sono molti i lettori che ricordano e possono ricordare; al suo ritorno in libreria i più l'accolgono con i favori che si riservano a una prodigiosa esordiente . La sua è una poesia di folgorante bellezza, "al calor bianco", scontornata nell'abisso. E l'inconscio gridato in cui tutto s'impasta: orrore, tenerezza, visione, abbrutimento, sogno, violenza. Nessuna maschera, ma una distaccata brutalità, un tenero coraggio di guardarsi dentro, di frugare nella condizione umana ignorando ogni sorta di convenzione o convenienza. Attorno al vortice della follia, si inscena così un candido girotondo che è al contempo rito, estasi ed esorcismo.

L'esperienza del manicomio (dapprima subita e poi cercata al fine di "sperimentarla consapevolmente") si è tradotta in uno straordinario e impietoso scavo esistenziale, una sorta di autodisciplina Zen. Nelle sue parole il malato di mente diviene una sorta di dostoevskijano "folle di Dio", patisce . La sua opera si traduce così in una schietta e aguzza indagine sociale, un punto d'osservazione dolorosamente privilegiato per attraversare con lo sguardo il mondo dei sani e quello dei barboni dei Navigli, la regola e la trasgressione, la norma e l'eversione esistenziale. «Il piede della follia /è macchiato d'azzurro/, con esso abbiamo migrato/ sui monti dell'ascensione,/ il piede della follia/ non ha nulla di divino/ ma la mente ci porta/ lungo le scese bianche/ dove fiotta la neve / cresce il sambuco/ geme l'agnello».

La «macchia», l'ascesa, il rifiuto della divinità sia pure implacabile nel suo richiamo, la crescita come dolore intollerabile: in una semplice strofa citata da «Il nostro trionfo» pubblicata in “La terra santa” si condensano alcuni «temi» che rendono incandescente e pressocchè unica questa esperienza lirica nel panorama della nostra poesia del secondo dopoguerra. Se il lettore cerca una testimonianza o una denunzia o una protesta più o meno «ragionevolmente» intesa, resta di sasso. I suoi conti non tornano né non torna certa nobile «pietas», sempre in agguato quando i media si occupano di casi come quelli della Merini, di scrittori decisamente «fuori», irregolari dell'anima e grandi minatori della psiche. La verità centrale di Dino Campana - scrive la Merini- «consisteva nella follia, per il malato la follia è il suo centro di vita». Come per Campana, anche per lei l'essenziale è battere alla soglia dell'enigma rappresentato dal buione della malattia, per cavarne il suono che davvero esprima il senso del vuoto, della prodigiosa resurrezione linguistica. Per tenere a freno una parola risucchiata da una terribile volontà di annientamento, ecco i «castelli dei miei silenzi, castelli dei miei dolori, tempi di oscure meraviglie». Ecco il racconto continuo di una caduta e di una ascesa, l'eco biblica e mistica è polverizzata da una eccitazione al dire e dirsi che avvelena i pozzi da cui volentieri si è dissetati: «Esistono anime così leggere e numismatiche che si chiamano sfingi. A volte uno si addormenta e lentissimamente perde l'anima. L'anima è quella cosa che sa di sudaticcio, che opprime e comprime e che di solito non si rallegra. Si torce e si dispera».

Difficile, davvero difficile per la Merini opporre la poesia alla vita, tanto è evidente che questa, nella sua violenza persino devastante, di quella è inesauribile sorgente, inseguendo una pienezza di corrispondenza e d' amore, che si rivela irrimediabilmente precaria. È difficile estrapolare da una sorta di incontenibile e inconclusa eruzione le gemme di una espressività solidificata; nella sua scrittura si finisce per immergersi e venir travolti dalla corrente.

Sta qui, in questa drammatica vitalità, la radice dell'amore dei suoi lettori, nell'autenticità di un dolore altrimenti indicibile, nell'enfasi di una scrittura che pretende di essere vera e sincera. C'è al fondo del suo disperato bisogno di scrivere uno slancio ribelle, un moto ingenuo di rivolta, che oppone alla cattiveria degli uomini l'attesa di un riscatto immaginario, di una pacificazione definitiva. .Il dolore è un alimento potente che porta alla poesia o esiste qualche altra voce, più potente e misteriosa? Così le chiedev o in uno delle nostre ultime conversazioni. “C’è stato per me – rispondeva Alda- l’ordine di scrivere, una visitazione. Come c’è stata l’Annunciazione angelica piuttosto forte, minacciosa. Ho sempre avuto il timor di Dio. Mi fa paura la capacità di arrabbiarsi, di questo Dio mangiafuoco, che minaccia il povero Pinocchio che non gli obbedisce. Per l’uomo è incomprensibile questo Dio di vendetta e d’amore. L’obbedienza è la risposta all’ordine divino, per cui la paura di Dio si traduce nell’obbedienza “.

A pagina 222 della “Vita facile” così conclude il suo ultimo viaggio tra ricordi, facezie, piccoli apologhi, schegge di vita e pensieri vari: “Mi chiama la vita, mi chiama la poesia, la stessa dea che un giorno mi abbandonerà. La stessa nemica che un giorno mi dichiarerà sconfitta”.

Alda Merini
“La vita facile”
Bompiani
224 pagine 12 euro
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