L'architetto Piero Sartogo arriva al Maxxi: «Quando l'arte era follia»

L'architetto Piero Sartogo arriva al Maxxi: «Quando l'arte era follia»
di Massimo Di Forti
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Sabato 12 Aprile 2014, 12:14 - Ultimo aggiornamento: 12:15
Non dimentichiamolo: erano i tempi del ’68 e dintorni, segnati da mille sperimentazioni.

Piero Sartogo rievoca con entusiasmo quei giorni che rivivranno al Maxxi in Tra/Between Arte e Architettura, a cura di Achille Bonito Oliva, una grande mostra che si moltiplica in due, Roma Interrotta e Piero Sartogo e gli artisti (dal 17 aprile al 21 settembre).

Nata dalla collaborazione del Maxxi Arte e del Maxxi Architettura diretti da Anna Mattirolo e Margherita Guccione e dagli Incontri Internazionali d’Arte diretti da Gabriella Buontempo, l’evento ripropone una stagione eccezionale, inaugurata nel ’70 dalla nascita degli Incontri creati da Graziella Lonardi Buontempo e dalle loro mostre cult come Vitalità del Negativo o Contemporanea.

Erano gli anni dei primi innovativi progetti di architettura virtuale di Sartogo che intervenendo con segni e luci sullo spazio reale ne consentivano una diversa percezione e dal dialogo tra l’architetto romano e artisti come Daniel Buren, Joseph Kosuth, Fabio Mauri, Gianni Colombo e Giulio Paolini. Ricorda Sartogo, autore nel ’97 con la moglie Nathalie Grenon dell’Ambasciata italiana a Washington e poi della Chiesa del Santo Volto di Gesù alla Magliana: «Furono gli artisti, come Mauri e Marotta, a volere la svolta con la mostra Amore mio a Montepulciano, nel ’70, coinvolgendo Bonito Oliva come critico e me come architetto. Non ci fermammo più».



È stata Vitalità a fare conoscere il metodo virtuale, che già allora interessò in una vivace riflessione maestri come Bruno Zevi e Rudolf Arnheim?

«Fu di sicuro una svolta radicale. Con un nastro nero che abbracciava le colonne, divisi la sala centrale in un volume buio negativo in alto e un altro positivo chiaro in basso.

Le luci ingigantivano le ombre delle persone che erano nell’atrio e fuori alcuni schermi tv proiettavano la mostra anche all’esterno, cosa che non era mai successa prima. Al primo piano, Fabio Mauri presentava la sua installazione “Luna”».



E come andò il dialogo con Gianni Colombo, Buren, Paolini e Kosuth, che costituisce gran parte della mostra al Maxxi?

«Lo Spazio Elastico di Colombo ha ispirato la ridefinizione del quartiere di edilizia popolare Gescal a Sesto San Giovanni: tagliando asimmetricamente con due fasce di colore antracite e bianca le facciate di 27 torri abbiamo cambiato la fruizione spazio-temporale della zona per chi ci vive o è di passaggio. Con Buren non ci incontrammo, fu un confronto a distanza tra i suoi progetti per le gallerie di Leo Castelli e John Weber al mitico 420 di West Broadway, dislocate su piani diversi. Intervenendo con vari segni sulle finestre o nell’ascensore, Buren riuscì ad appropriarsi percettivamente di tutto l’edificio stabilendo tra i vari ambienti una continuità.

Io feci lo stesso per la sede dell’Ice, ricorrendo a una progressione verticale sulle colonne delle sale. Nella casa di Paolini, invece, partendo dalla sua serie “Early Dynastic” a spirale, realizzai una sequenza che si concluse all’ultimo piano con “Door”, una porta invisibile creata da Kosuth».



Contemporanea riunì nel parcheggio di Villa Borghese star come Warhol e Beuys in spazi divisi da reti metalliche ma comunicanti. Fu uno choc. Come fu possibile?

«Adesso è incredibile ma allora cose del genere erano nell’aria. Turcato, per esempio, voleva fare mostre nelle stazioni. L’idea delle reti, per una rassegna interdisciplinare, evitò di creare scatole chiuse, dando agli artisti spazi separati che però comunicavano visivamente. Contemporanea fu una scommessa vinta con grande coraggio da Graziella Lonardi. Per farla, vendette la sua casa di Cortina! Chapeau».



Dopo quegli eventi il coordinamento dell’immagine sostituì l’allestimento: qual era la differenza?

«Abissale. L’allestimento dispone opere d’arte in uno spazio. Il coordinamento dell’immagine visualizza la tesi critica di una mostra, ne traduce il significato in un’immagine che la interpreta».



Perché “Roma interrotta” è una mostra cult? Come è nata?

«È nata dalla pianta del Nolli del 1748, divisa nei 12 moduli delle lastre usate per le incisioni. Partendo da questo dato tecnico, io e 11 architetti internazionali, tra i quali Aldo Rossi e Robert Venturi, inventammo un’altra Roma. Il mio progetto sostituiva il Vaticano con i falansteri di Fourier... Si sperimentava, eccome».
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