Rina Fort, la belva di San Gregorio che fece indignare l'Italia

(Foto Olycom)
di Carlo Nordio
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Sabato 19 Agosto 2017, 09:40 - Ultimo aggiornamento: 24 Agosto, 22:02
La mattina del 30 Novembre 1946 Pina Somaschini, commessa nel negozio di Giuseppe Ricciardi, si recò, come al solito, a casa del proprietario per prender le chiavi della bottega. Trovò la porta semichiusa, e questo la insospettì. Entrò cautamente, e le apparve una scena raccapricciante. La moglie del Ricciardi e i tre figlioletti giacevano in un lago di sangue con la testa fracassata. Il più piccolo dei fanciulli, Antoniuccio, di dieci mesi, era ancora seduto sul seggiolone.

Il modesto appartamento era stato messo a soqquadro, e mancavano alcuni pezzi di argenteria di scarso valore. Anche nella miseria postbellica, nessun rapinatore avrebbe fatto una strage per meno di trenta denari. Per di più gli investigatori trovarono una fotografia, rabbiosamente stracciata, delle nozze della coppia. Si capì subito che si trattava di un delitto passionale, e i sospetti si indirizzarono verso la commessa del Ricciardi, con la quale l'uomo intratteneva, notoriamente e da tempo, una relazione: Caterina Fort. Un nome che a lungo avrebbe ossessionato tutte le mamme d Italia.

Caterina (Rina) Fort, 31 anni, era una robusta friulana di Budoia, reduce da un'infanzia infelice e da un matrimonio ancor più disgraziato. Il marito aveva dimostrato disturbi schizoidi, ed era finito in manicomio.Non erano nati bambini. Lei era sterile: una circostanza che, a posteriori, alcuni giudicarono significativa per capire il suo carattere. La ragazza si era trasferita a Milano, e durante la guerra aveva condotto una vita abbastanza ambigua: si parlò di prostituzione, di cocaina, di delazioni ai nazisti. L'unica cosa sicura è che aveva trovato un impiego preso il Ricciardi, un commerciante che vivacchiava tra espedienti e borsa nera.

BOMBE
Costui viveva lontano dalla moglie, rimasta in Sicilia in un' Italia ancora divisa dalla guerra. Tra i due era nata una storia abbastanza strana per un Paese sotto le bombe e non propriamente liberale: la donna non nascondeva la tresca, e talvolta si spacciava per moglie del principale, usandone il nome. Era gelosa e possessiva, ma abile negli affari. Il negozio, diretto da lei, quasi prosperava.

Finita la guerra, Ricciardi ritenne di finire anche la relazione. Fece salire la famiglia a Milano, e provò - come si dice - a liquidare l'amante in termini civili. Ma Rina era di altra pasta. Pensando che la decisione dell'uomo fosse condizionata dalla famiglia, si sbarazzò dell'impaccio sterminando moglie e bambini. Interrogata dal commissario Nardone che sarebbe diventato un mito della polizia milanese dopo un' estenuante serie di contestazioni confessò: ammise l'omicidio della donna, ma negò quello dei figli. In totale cambiò sette volte versione. Il Paese ribollì di rabbia, e i giornali furono tempestati di lettere, soprattutto di mamme, che invocavano la pena di morte. Molte proposero la tortura.

Quando, nel 1950, si aprì il dibattimento alla Corte d'Assise di Milano, l'atmosfera non si era rasserenata. Al contrario: il palazzo di giustizia assistette al triste fenomeno delle tricoteuses, donne che passavano la giornata tra i banchi del pubblico, lavorando a maglia e auspicando, quando la Corte non sentiva, le più efferate sevizie per quella belva dalla sciarpa gialla. In effetti anche la sciarpa, che la Fort indossava per vergogna, o forse per civetteria, era diventata un'icona del processo. Di tanto in tanto lei la abbassava per ribadire la sua versione: aveva ucciso la donna quasi per sbaglio; la strage invece era stata ideata dal Ricciardi, che si era servito di un complice. Un'ipotesi che, agli inizi, non fu del tutto scartata.

Fisicamente, la coppia non aveva nulla degli amanti diabolici. Lui era un ometto insignificante e rifinito, di scarsa intelligenza e di cultura assente. Non doveva essere un sentimentale, perché la sua prima preoccupazione, appena informato del delitto, era stata quella di verificare quanta argenteria fosse sparita. Ma non era nemmeno un assassino, e infatti fu prosciolto assieme all'amico ingiustamente accusato dall'imputata. La Fort, dal canto suo, pur senza esser una seducente femme fatale, non era ripugnante come il suo misfatto. La stampa la descrisse con «occhi un poco a mandorla, un taglio del viso a zigomi alti, il naso vagamente da meticcia, le labbra rilevate, una bocca sorniona e lontanamente animalesca: una certa bellezza sana e popolare». Durante il dibattimento tenne un atteggiamento abbastanza assente. «Non impassibile scrisse Dino Buzzati - perché l'impassibilità è già una forza, sia pure negativa.Ma piuttosto inerte, atona e indifferente».Probabilmente, e non ci voleva molto a capirlo, aveva già intuito come sarebbe andata a finire.

Naturalmente fu sottoposta a visita psichiatrica. Il professor Saporito, criminologo di fama che già abbiamo incontrato in altri casi simili, la dichiarò sana di mente. In effetti nulla, a parte la sua crudeltà, denotava una patologia dell'intelletto o della volontà.

DIFENSORE
Il difensore ce la mise tutta per prospettare una diversa ricostruzione dei fatti: Rina aveva reagito a un'aggressione della moglie gelosa, e non voleva uccidere. I bambini erano stati massacrati dal sicario. Le parti civili e il pubblico ministero demolirono questi goffi tentativi, anche se nessuno seppe resistere alla tentazione della retorica del tempo: rilette a distanza, arringhe e requisitorie ci fanno quasi sorridere per la loro appassionata prosopopea. Tuttavia i fatti erano quelli: le teste maciullate dei bambini, la materia cerebrale sparsa per la casa, la madre soffocata mentre agonizzava. Ce n'era abbastanza per concludere senza altre esitazioni: il 9 Aprile 1952 Rina Fort fu condannata all'ergastolo. Il pubblico appplaudì. Ma molti si rammaricarono che in Itala non ci fosse il patibolo.
Trascorse in carcere venticinque anni. Anche lei, come molti altri condannati, chiese perdono alle vittime, pur proclamandosi sempre innocente della morte dei bambini: forse nemmeno lei voleva ammetter a sé stessa una brutalità così atroce. Fu una detenuta modello, e nel 1975 fu graziata dal presidente Leone. Visse ancora tredici anni. Quando morì, i giornali ne parlarono come se un quarto di secolo non fosse passato. E ancora oggi il nome di Caterina Fort evoca immagini sinistre di sevizie e crudeltà. Ricciardi morì quasi contemporaneamente: nel frattempo si era risposato.

Visto retrospettivamente, il suo caso rappresenta un unicum della nostra storia criminale. La donna era sana di mente, eppure il suo delitto non è razionalmente comprensibile. Anche ammesso che avesse agito in un impeto d'ira, motivato da un litigio con la rivale, nulla poteva e può spiegare l'accanimento tanto feroce contro i tre bambini, uno dei quali praticamente ancora in fasce. Il suo maldestro tentativo di simulare una rapina fu il sintomo di una furbizia balorda, come il suo atteggiamento immediatamente successivo, noncurante e tranquillo, fu l'espressione di un cinismo amorale, più ancora che crudele. Nessun omicida, almeno da noi, ha compiuto in pochi istanti tanti atti di tanta brutalità. E tuttavia ,anche durante detenzione, la donna ebbe dei momenti di tenerezza. Riacquistò la fede, chiese e ottenne il perdono di quanto restava della famiglia Pappalardo, e la grazia presidenziale suggellò una redenzione che tutti giudicarono sincera.

Nella sua genialità visionaria, Dino Buzzati, che aveva seguito il processo, immaginò che, dopo una lunga detenzione, Rina Fort sarebbe stata graziata. Ma se la immaginò come «un silenzioso e miserando rudere», che sarebbe tornato sul luogo del delitto, aggrappandosi al cancello della casa «fissando i tre piccoli che giocano», mentre i passanti si tiravano di lato. Il grande scrittore, che come tutti grandi scrittori vedeva la realtà filtrata dalla fantasia, si sbagliò di grosso. Rina Fort non tornò mai in via San Gregorio, e nemmeno a Milano. Si rinchiuse in guisa monastica vicino Firenze e continuò a scrivere lettere di contrizione. Se fossero sincere oppure no, nessuno può dirlo.

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