Quando Franca Valeri salì sul palco del Valle occupato: «In una capitale i teatri si aprono, si custodiscono, si fabbricano, non si chiudono»

Franca Valeri nel suo ultimo spettacolo a Spoleto
di Renato Minore
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Domenica 9 Agosto 2020, 19:40

Quel pomeriggio di giugno di dieci anni fa, sul palcoscenico del Valle occupato salì una Signora, una Grande Signora del teatro italiano, giustamente indignata ed emozionata che, con lo sguardo ancora pronto a stupirsi, con la sua inconfondibile “voce fatta di rose di maggio e di spine paurose” come l’aveva definita Jean Cocteau, con parole indignate ed emozionate, ricordò che «in una capitale non si chiudono i teatri, in una capitale i teatri si aprono, i teatri si custodiscono, i teatri si fabbricano».

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Una straordinaria presenza, una straordinaria emozione, ho ancora nella memoria la sua voce così ferma e carica di passione che riusciva a imporsi sulla malattia che già la frenava. Qualche giorno dopo mi capitò di risentirla più volte quella voce nei suoi diversi, toni sfumati ironici vibranti, standole accanto come presentatore in alcuni incontri in cui Franca Valeri parlava del suo “Bugiarda no, reticente”, delizioso, intelligente pieno di charme, il racconto di una vita speciale di cui oltre sessanta anni passati tra palcoscenico, set, studi televisivi e scrivania, nel duro lavoro della scrittura creativa.

Arguta e sorridente, ferocemente sincera con se stessa, Franca parlava della sua famiglia, il padre ebreo e antifascista, la madre bella ed eccentrica, il fratello, le serate da piccola alla Scala, le lunghe villeggiature al mare e ai monti. Vita dorata di una fanciulla in fiore completamente cancellata dalle leggi razziali, dalla fuga del padre in Svizzera, i gioielli di famiglia seppelliti in un giardino di famiglia in Brianza. La macchina del tempo andava continuamente avanti e indietro in questi tredici capitoli.

Gioie e dolori, amori e litigi, successi e speranze impegno e sarcasmo capace di muoversi da un campo all’altro dell’esistenza, dalla politica alla convivenza civile dai consumi all’arte pura. Forse, lei diceva a chi glielo chiedeva, “inventare una vita è più facile che viverla”.

Ma non aveva ceduto al fascino dell’autobiografia. Era sfuggita completamente al genere in cui eccellono gli attori dove troviamo molto spesso narciso e pettegolezzi che vanno a braccetto. Quello che aveva scritto non era un racconto ordinato dall’infanzia all’oggi, anche se la sua vita c’èra tutta, almeno i suoi momenti più importanti. A suo modo attraversava il Novecento e lo scavalcava. Un po’ di antropologia italiana, dal fascismo all’Italia dei talk show era infilzata nelle memorie apparente scheggiate, puntuali come lingua e crudeli come analisi.

“Bugiarda no, reticente” era un viaggio (come lei stessa lo definiva) “nella memoria notturna”, con quel passo svelto che si fa senza volerlo, o senza darlo a vedere, “letteratura”, con deliziosa leggerezza citando senza volerlo la Recherche, sfiorando a volo d’uccello i ricordi, le emozioni. i personaggi, gli amori e seguendo l’ordine della memoria selettiva soprattutto quando essa affiora nel silenzio ancora più silenzioso della notte. In una notte solitaria e in una solitudine conquistata con orgoglio, una delle immagini più forti e veritiere del libro.

In fondo un altro monologo, di quelli straordinari della Valeri. Un divagare illuminante e penetrante attraverso la precaria varietà di cui facevano parte, a pari titoli, i mobili di famiglia chiamati con perizia d’antiquario, le piccole vacanze infantili da Riccione alla Svizzera e l’antifascismo senza mediazioni metabolizzato in famiglia.

Parlare d’altro per dire di sé, come una piccola frase principale seguita da tante subordinate. Un pensiero che cade e affonda nell’acqua di altri pensieri. Con la ben visibile arte della digressione, “Bugiarda no, reticente” è a suo modo un breve quasi involontario romanzo di formazione, appoggiandosi a questo e quel momento, dando spazio alle figure più amate, con una prosa fratta, baluginante, capace di inframmezzare l’andirivieni narrativo con una scarica ininterrotta di pensieri paradossali e vigorosi, lasciati cadere in ogni direzione e con assoluta nonchalance. Capace di scoperchiare interi mondi con un solo capoverso.

Una volta raccontando l’emozione mozzafiato del sipario della Scala che si apre davanti ai suoi occhi trepidanti di bambina. Un’altra volta "dipingendo" sulla pagina un improvviso assembramento di mosconi - sul mare di Riccione - con i bagnini che creano un cerchio in mezzo al quale “galleggiava un pallone o una zucca: era la testa di Mussolini, detto il Duce”.

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