Ombretta Colli: «Io e il Signor G. Quell'amore diventato vita»

Ombretta Colli: «Io e il Signor G. Quell'amore diventato vita»
di Simona Orlando
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Martedì 19 Maggio 2020, 10:41 - Ultimo aggiornamento: 20 Maggio, 10:55
Il primo bacio fu per lavoro, nel 1961 sul set fotografico del 45 giri Benzina e cerini. Si rincontrarono per caso a Roma, ad una festa in terrazza e si salutarono senza scambiarsi i numeri, poi lei ricevette una telefonata in hotel alle tre del mattino: «Sono Giorgio, ho provato tutti gli alberghi, finché non ti ho trovata». È uno dei tanti aneddoti di Chiedimi chi era Gaber di Ombretta Colli e Paolo Dal Bon (Presidente della Fondazione Gaber), in cui le vicende artistiche e sentimentali dell’attrice, poi cantante, si intrecciano indissolubilmente al Signor G.

Lei nata nel ’43 a Genova, lui nel ’39 a Milano, separati solo dall’adolescenza: «Tempi duri e belli, di solidarietà in strada e senso di appartenenza che ci aiutarono poi a non comportarci da divi» ci racconta dalla casa di Camaiore, ancora sorpresa che il suo brano del 1975 Facciamo finta che in Spagna sia diventato l’inno contro la pandemia: «Sarà contento  Gaber, che lo trovava divertente».

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Il libro ripercorre la carriera di entrambi, dalle prove in cantina con “Schizzo” Enzo Jannacci al sodalizio con Sandro Luporini, insieme in tv, genitori alle prese nel 1973 con la minaccia di rapimento della figlia Dalia. È un ritratto anche dell’Italia: il boom, gli anni di piombo, il teatro-canzone, avanti fino alla morte del cantautore nel 2003. Lei irruenta, lui riflessivo, uniti dalla “cosa”: «Quarant’anni insieme, più diciassette dalla sua scomparsa» sottolinea la Colli.

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Partiamo dalla foto di copertina. Che momento era? «Il 1965, freschi di nozze, il prete non riuscì a pronunciare il vero cognome Gaberscik. Giorgio era bellissimo e vitale, ma non amava viaggiare. Tranne Londra, avrebbe preferito una seduta dal dentista a qualsiasi meta esotica. Poi un giorno disse: “Credo che io e te potremmo andare davvero lontano, sai? Insomma, potremmo sposarci”».

Gli sfioramenti prima dell’incontro vero, li leggeste come segni?  «In La cosa dice: “L’amore è un patto di sangue stipulato tra due persone e forse, prima ancora, dal destino. La “cosa” è un’altra qualità dell’amore, che non rimpiange gli attimi perché diventa la vita”. Una bella sintesi che ci riguarda. Per me l’amore era lui» Differivano l’uomo e l’artista? «No, per mio marito non c’era soluzione di continuità tra vita e arte. E la nostra casa era un circolo aperto. Se la luce del soggiorno era accesa, saliva chiunque».

Frequentavate le coppie Ghezzi-De André, Rame-Fo, Mondaini-Vianello, Mori- Celentano. In cosa vi ritrovavate? «Dori ed io eravamo più rivolte al popolare, Fabrizio e Giorgio più impegnati. Io e Franca molto coinvolte nelle battaglie femministe, Dario e Giorgio padri nobili e autorevoli per tanti giovani. Sandra e Raimondo, come noi, avevano la capacità di amarsi intensamente senza prendersi troppo sul serio. In Claudia e Adriano mi ritrovo un po’ meno. Lei ha sempre lavorato per il successo del marito. Giorgio e io, pur condividendo praticamente ogni scelta, siamo sempre stati completamente autonomi nelle decisioni».

Come quando lei aderì a Forza Italia? «Giorgio era di sinistra, anche se ipercritico, e mi sostenne. Era un democratico autentico. Con il gusto del paradosso diceva: “La lotta per la libertà fa benissimo. La libertà fa malissimo!”» nel senso che quando la libertà conquista il potere, si trasforma in ciò che aveva combattuto».

Un giorno bussò alla porta anche un tale Francesco dalla Sicilia. «Era Battiato. Cercava lavoro e ammirava Giorgio. Nacque una delle amicizie più belle della mia vita. L’innocenza è la sua prerogativa esistenziale, oltre all’imprevedibilità. Appassionato come me di astrologia, scommettevamo su chi indovinava il segno zodiacale altrui. In palio, barattoli di Nutella».

Cinquant’anni fa nasceva il teatro-canzone. Il periodo più felice per Gaber? «Sì inizio con la tournée di Mina. A teatro lui faceva il primo tempo, lei il secondo, ma da subito la sala scandiva il nome Mina: non l’avevano mai vista “a colori”. Giorgio se la cavò benissimo e lì nacque l’unico amore del quale avrei potuto essere gelosa: il teatro».

L’opera Gaber dubita di chi ostenta certezze rivoluzionarie. Oggi di cosa si occuperebbe? «Noterebbe in anticipo cose che ad altri sfuggono. Il termine “anticonformista” non gli piaceva, troppo rigido. Era un non conformista, sospettoso verso estremismi e idee in voga».

Lei preferì il repertorio popolare a quello impegnato. Fu compresa fino in fondo? «All’inizio faticai a farmi accettare dal pubblico. Ero convinta che con quell’approccio semplice e divertente sarei arrivata anche a donne che, per ragioni culturali o territoriali, erano ancora distanti dall’avanguardia femminista. Alla fine credo che il pubblico abbia apprezzato»

L’ultimo messaggio Gaber lo lasciò nel disco postumo: “Io non mi sento italiano”. Cosa le disse l’allora Presidente Ciampi? «Apprezzò l’intelligenza e l’ironia.
Trovò divertente che Gaber, terminata la scrittura del brano con Luporini, avesse detto: “Se al presidente Ciampi non piace, il peggio che ci potrà capitare è il confino». Cosa ci ha lasciato? «Qualcosa di inestinguibile, umanamente e artisticamente. Canzoni piene di poesia, rivoluzionarie sul piano del linguaggio, fonte di stimoli e illuminazioni. Dialogo ancora con lui. Prima che chiudesse gli occhi, feci in tempo a digli: “Saremo sempre insieme”». 
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