Marco Aurelio, la gloria dell’imperatore filosofo

Il 26 aprile di 1900 anni fa nasceva uno dei grandi protagonisti dell’antichità

Marco Aurelio, la gloria dell’imperatore filosofo
di Carlo Nordio
5 Minuti di Lettura
Sabato 24 Aprile 2021, 09:06 - Ultimo aggiornamento: 25 Aprile, 11:15

Per i romani, Marco Aurelio evoca essenzialmente l'immagine dell'imponente statua equestre che domina il Campidoglio: uno dei tanti grandi imperatori che edificarono l'istituzione più vasta e duratura della Storia, di cui giustamente andare orgogliosi. Tuttavia quel maestoso cavaliere fu molto di più di un capace reggitore di uno Stato immenso, che andava dalla Britannia alla Persia, e dal Danubio all'Egitto. Fu un guerriero valoroso come Cesare, statista lungimirante come Augusto, e infine filosofo come Seneca. Ed è sotto quest'ultimo aspetto che la sua memoria resterà duratura.

LE ORIGINI

Era nato a Roma proprio 1900 anni fa, il 26 Aprile del 121 d.c. da famiglia di origini illustri: lo zio, Antonino Pio, nel 138 sarebbe succeduto ad Adriano alla guida dell'Impero. A dodici anni aveva abbracciato la filosofia stoica, e a diciassette aveva già dimostrato le doti di intelligenza, risoluzione e coraggio che contraddistinguono il grande politico. Adriano lo aveva adocchiato, e quando nominò suo successore il mite Antonino pose come condizione che Marco ne fosse l'erede adottivo. Un matrimonio tra Faustina, figlia di Antonino, e il giovane designato, favorì questo accordo successorio. Fu una scelta infelice nell'unione, perché la donna si rivelò capricciosa e infedele; ma fu propizia per lo Stato, perché gli assicurò un transito di poteri ordinato e pacifico. Alla morte dello zio, nel Marzo del 161, Marco assunse con riluttanza la carica di princeps, e quindi di imperatore.

APOGEO

Roma era allora all'apice della potenza e della prosperità: la sua politica era tollerante e illuminata, l'ubbidienza dei popoli vinti era uniforme, volontaria e costante, incoraggiata dal rispetto che l'ordinamento assicurava alle tradizioni culturali e religiose delle popolazioni. L'impero era ornato da opere spesso finanziate da privati destinate alla pubblica utilità e allo svago gratuito. E nonostante le sciagurate parentesi di eccentrici sanguinari come Caligola e Domiziano, i progressi del commercio, dell'agricoltura e dell'educazione assicuravano ai cittadini, e anche ai sudditi, una vita pacifica assistita da una legislazione saggia e da un giustizia efficiente.

Antonino Pio aveva avuto il merito, ci dice Gibbon, di non fornire materiali alla storia, e quindi di aver evitato i delitti, le follie, le sventure e le guerre che ne costituiscono il registro puntuale. Questo fu, conclude il grande storico inglese, il periodo nella storia universale nel quale la condizione umana fu più prospera e felice. Naturalmente si riferiva soltanto alla parte del mondo allora conosciuta.

Marco Aurelio si trovò quindi ad affrontare soltanto nemici esterni, principalmente le tribù barbare che premevano lungo gli sterminati confini dell'Impero. Delegò il comando a capaci generali, e riuscì persino a controllare quei Parsi che da sempre avevano dato filo da torcere ai romani. Nel frattempo scoppiò una furiosa epidemia, vagamente chiamata pestilenza, che oggi si ritiene una forma di vaiolo, o chissà, un Covid ante litteram. Nella sola Capitale morivano duemila persone al giorno, e le vittime totali superarono i cinque milioni. La famiglia di Marco fu falcidiata, come pure i suoi migliori condottieri. Quando nell'area danubiana, i Quadi e i Marcomanni ripresero le armi, Marco Aurelio dovette limitare la sua attività di legislatore, giurista e filosofo e affrontare una lunga e dura campagna.

LE DOTI

Si rivelò, come Churchill, tanto bravo nella spada quanto nella penna, e condusse le truppe di vittoria in vittoria. Ma la rigida vita del soldato, la sua fragile costituzione, e probabilmente un'ennesima epidemia, lo fiaccarono irrimediabilmente. Il 17 Marzo del 180, sentendo la morte vicina, rifiutò il cibo, e rassegnandosi docilmente alla nostra inevitabile mortalità salutò gli amici, pronunciò beneauguranti auspici per il figlio e per Roma, e raggiunse la pace. Fu subito, come di consueto, divinizzato. Lui per primo avrebbe accettato questo tributo come riverente ossequio alla tradizione e alla continuità istituzionale. Ma sotto sotto ne avrebbe sorriso, con la benevole indulgenza dello stoico disincantato.

Da sempre aveva infatti uniformato la propria ai vita ai suoi precetti filosofici: quel rigido sistema gli aveva insegnato a sottomettere il corpo allo spirito e le passioni alla ragione; considerava la virtù come l'unico bene, il vizio come l'unico male, e tutte le altre cose esterne come indifferenti. Era rigido con sé stesso, ma generoso e comprensivo con gli altri. Si rammaricò che Avidio Caso, che aveva congiurato contro di lui, gli avesse tolto, suicidandosi, il piacere di perdonarlo. Come molti valenti militari, fino a Mac Arthur ed Eisenhower, considerava la guerra un flagello dell'umanità, ma come Platone sapeva che soltanto i morti ne avevano visto la fine, e che all'occorrenza l'uso della armi era necessario per ristabilire la sicurezza, la giustizia e la pace. La neutralità disarmata è una vaga utopia di menti viziate dall'astrazione speculativa: chi ha responsabilità di governo sa che accanto a un ricca biblioteca di saggi deve avere un adeguato arsenale di difesa. Per Marco Aurelio era un dolore abbandonare i libri e imbracciare la spada. Ma quando vi era costretto lo faceva con la scrupolosa pianificazione, la brillante strategia e la fulminea risolutezza che si sarebbero riviste, secoli dopo, soltanto in Napoleone.

LA PRODUZIONE

Tuttavia, come s'è detto, la sua gloria maggiore risiede nella sua produzione letteraria. Non fu un sistematico elaboratore di sistemi metafisici. Come tutti i pensatori romani, da Seneca a Cicerone, intese la filosofia non come descrizione teorica dell'infinito, ma come scuola di virtù e metodo di vita, orientato al raggiungimento della serenità interiore al fine di tradursi in comportamenti virtuosi. La sua conclusione era tuttavia quella dell'Ecclesiaste: una persona di quarant'anni e di media intelligenza, che viva normalmente, ha visto tutto ciò che è stato, che è e che sarà. Nulla di nuovo il sole. E dopo la morte ritorniamo dove eravamo prima. La virtù non deve attendersi nulla, né in questo mondo né nell'altro; deve accontentarsi di sé, trovando in sé stessa la sua giustificazione e la sua gioia.

È una visione di nobile distacco, purtroppo inadatta alla nostra imperfetta e oscillante natura. E infatti non fu seguita dal figlio Commodo, che si rivelò il più crudele, dissoluto e pervertito degli imperatori. Per fortuna il rimedio a tanto sconsolato pessimismo non fu trovato in questo illusorio analgesico di vizio e di corruzione, ma nella religione cristiana, che se da una parte minava la struttura politica dell'Impero, dall'altra si predisponeva a raccoglierne, e in futuro ad arricchirne, l'eredità.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA