Nato a Parigi il 23 aprile 1929 da una famiglia austriaca di origine ebraica, allontanatasi dall'Austria a causa del clima di antisemitismo diffusosi alla fine degli anni Venti ed emigrata nel 1940 negli Stati Uniti, Steiner seguì gli studi universitari in Europa e negli Stati Uniti. Steiner è stato membro dello staff di "The Economist" a Londra (1952-56), dal 1966 ha sostituito Edmund Wilson come critico letterario per il "New Yorker" - salvo poi essere silurato da Tina Brown per le critiche alla sua direazione - e ha collaborato al "Times literary supplement".
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Cresciuto in una famiglia dove si parlavano correntemente inglese, francese e tedesco, educato dal padre a un profondo rispetto per i classici e per i grandi del pensiero, della musica, della letteratura e delle arti, secondo le migliori tradizioni di quell'ambiente ebraico mitteleuropeo, della cui rovina fu testimone durante l'infanzia, Steiner si è avvalso di un tale patrimonio per un'appassionata ricerca sulle origini della crisi della cultura europea occidentale.
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La crisi della cultura si identifica per Steiner con la crisi del linguaggio: in "Linguaggio e silenzio" (1967, Rizzoli 1972 e Garzanti 1994) intuisce come la corruzione del linguaggio sia legata alla menzogna e alla ferocia del totalitarismo. Questa tesi diventerà centrale in "Nel castello di Barbablù" (1971, Se 1990), in cui l'Olocausto è indicato come la causa dello iato incolmabile apertosi tra cultura e politica (mondo di Weimar e mondo di Auschwitz), e dunque della fine del concetto stesso di progresso e della coincidenza di progresso e cultura.
Indicando in Babele un simbolo non di confusione ma di vitalità, Steiner vede nella proliferazione delle lingue la capacità umana di generare realtà alternative e quindi di proiettarsi durevolmente nel futuro. L'egemonia distruttrice delle cosiddette lingue maggiori, soprattutto dell'inglese, diventa così una componente del processo di massificazione e del livellamento della cultura occidentale.
Nell'autobiografia intellettuale "Errata" (1997; Garzanti 1998) Steiner afferma di aver troppo tardi riconosciuto le origini del tramonto della cultura occidentale in una trasformazione radicale di categorie ontologico-storiche risalenti alla cultura greca classica. La cosiddetta nuova era si basa su una cultura dell'effimero opposta a quella della durata. Si dichiara infine, con autoironia, un anarchico platonico, incapace di aderire a uno schieramento politico, ma fermamente convinto della necessità di appoggiare qualsiasi ordine sociale capace di diminuire la sofferenza nel mondo e di dare spazio a un'élite culturale degli scienziati, degli artisti e dei filosofi.