Fausto Podavini: «Il fotogiornalismo non è un gioco, è studio e relazioni umane»

Uomini della comunità etiope Hamar pascolano il bestiame nel villaggio di Turmi. Uno scatto del 2012 di Fausto Podavini per il suo progetto "Omo Change".
di Nicolas Lozito
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Mercoledì 5 Dicembre 2018, 01:23 - Ultimo aggiornamento: 10 Dicembre, 23:05
Fausto Podavini, romano classe 1973, è uno dei cinque fotografi italiani ad aver vinto un premio nell’edizione 2018 del World Press Photo. Podavini, infatti, è arrivato secondo nella categoria dedicata ai progetti a medio termine con il suo lavoro “Omo Change”, svolto dal 2011 al 2017 in Etiopia. Già vincitore nel 2013 di un altro World Press Photo per il suo lavoro “Mirella” sull’Alzheimer, il fotografo racconterà i suoi progetti e la sua carriera il 7 dicembre ad Aosta, in occasione dell’inaugurazione della mostra del World Press Photo al Forte di Bard (aperta fino al 6 gennaio 2019). 

Come nasce un progetto fotografico di lungo termine come questo, durato ben sette anni? 
«L’inizio della mia storia con l’Etiopia risale al 2010. Stavo facendo un altro lavoro in Africa quando ho saputo che nella valle dell’Omo, un fiume che attraversa il sud del Paese, stava per essere costruita la diga più alta di tutto il continente. Un investimento che sarebbe stato il più grande mai realizzato dall’Etiopia e che avrebbe prodotto tre volte il fabbisogno energetico dell’intera nazione. Mi sono detto “voglio andare a vedere”. Ma per farlo bisognava studiare, prepararsi, documentarsi, leggere. In ogni progetto questa è la parte più importante».


2016: La diga Gibe III nella valle dell'Omo ©Fausto Podavini/WPP

Poi nel 2011 è partito, cosa ha trovato?
«Sapevo che l’opera, costruita da una ditta italiana, avrebbe portato molti benefici. Allo stesso tempo però in molti sospettavano che avrebbe cambiato completamente la vita di chi abita vicino al fiume: le migliaia di persone indigene che vivono da sempre a stretto contatto con la natura, in perfetto equilibrio con un fiume impetuoso e incontrollabile. Le prime foto le ho fatte a queste popolazioni». 


2017: Uomini Nyangatom fanno il bagno lungo l'Omo, vicino al ponte che collega i loro territori con quelli dei Karo  ©Fausto Podavini/WPP

Cosa è cambiato nel corso degli anni? 
«Mi ero prefissato di andare una o due volte all’anno sul posto fino a che i lavori della diga non fossero finiti, e poi fare un ultimo viaggio a un anno dalla realizzazione. È stata una grande scommessa, perché i primi viaggi erano completamente autofinanziati. Purtroppo, però, i sospetti si sono rivelati corretti: il beneficio della diga al Paese andava a discapito delle 500.000 popolazioni locali totalmente ignorate e tra l’altro mai avvisate dei lavori. L’Omo non esondava più, con gli anni è stato sempre più sotto controllo, e così gli indigeni non potevano più coltivare come avevano sempre fatto. In pochi anni si sono ritrovati a dover comprare al mercato quel cibo che prima coltivavano loro. Un’enorme contraddizione».

E il suo lavoro, invece, ha subito conseguenze? È stato più difficile? 
«La costruzione della diga ha dato il via a molti problemi anche per me. Innanzitutto di accesso: il cantiere era sorvegliato militarmente. E poi di relazione. Con gli anni, le popolazioni locali sono diventate più nervose e diffidenti, meno aperte. Non credo nel fotogiornalismo alla Indiana Jones, dove si arriva come eroi occidentali, si fa qualche scatto e si riparte. Credo che serva stabilire relazioni, capire il più possibile, fermarsi il più possibile».


2012: Un membro dell'etnia Konso fuma lungo una strada di Arba Minch ©Fausto Podavini/WPP

Quali sono i valori del suo fotogiornalismo?
«In un mondo sempre più bombardato di immagini, il professionista è quello che offre l’approfondimento al lettore. C’è una voglia e una richiesta crescente di approfondimento, e anzi, a differenza di un tempo più che una voglia è una necessità. Ecco perché lo scatto è solo l’ultimo step del lavoro del fotogiornalista. Prima c’è lo studio, la ricerca, la documentazione, la progettualità».

Lei dedica buona parte del suo lavoro anche all’insegnamento, grazie alla sua scuola “WSP” di Roma. Qual è la prima lezione che dà ai suoi studenti?
«Ho creato questa scuola di reportage perché servisse da acceleratore a chi vuole fare della fotografia la propria professione. Una scuola ideale, la scuola che avrei frequentato io che invece ho scoperto tutto da autodidatta in molto più tempo. La prima cosa che dico è che la fotografia non è un gioco, va rispettata, è una cosa seria, perché parla a tantissime persone, anche se non ce ne accorgiamo. Cercate una vostra visione e impegnatevi a fare sul serio». 


2011: Un gruppo di bambini Karo giocano lungo la riva del fiume Omo ©Fausto Podavini/WPP

Vorrei tornare agli scatti della valle dell’Omo, in particolare a quello che è diventato il più famoso. Un gruppo di bambini che corre lungo le rive del fiume. Ci può raccontare come è nata questa foto? 
«Ricordo molto bene quel giorno. Era uno dei miei primi in Etiopia, nel 2011, all’epoca del primo viaggio. Sono arrivato nel villaggio della popolazione Karo e ho pensato: “Questo è il Paradiso, qui il rapporto uomo natura è in equilibrio perfetto”. Tutti vivevano in perfetta simbiosi con il territorio, il loro villaggio governava il dorso del fiume. Ho passato qualche giorno con loro, per ambientarmi. Poi ho iniziato a scattare: ho trovato dei bambini che giocavano lungo i dirupo. Un gioco quotidiano, semplice, una gara a chi saltava più lontano. Per fare quella foto ci ho impiegato un’ora e mezza». 

Cosa è rimasto di quel luogo oggi? 
«L’anno scorso ci sono tornato. Nello scatto si vedeva sullo sfondo una rigogliosa foresta fluviale. Non c’è più. Il fiume è più calmo e all’orizzonte si vede solo una piantagione di cotone. Né lì, né nei dintorni, ci sono più bambini che giocano».  
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