Nick Smith: «I miei puzzle emotivi: ecco i grandi capolavori dell'arte decostruiti con le tessere Pantone»

Modigliani rivisto da Nick Smith
di Matteo Maffucci
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Mercoledì 7 Aprile 2021, 13:55 - Ultimo aggiornamento: 14:06

Quando ci si trova di fronte a un’opera di Nick Smith ci vuole qualche secondo per decodificare l’immagine rappresentata. Dietro al mosaico ricreato accostando le iconiche palette multicolor di Pantone, si celano grandi opere d’arte, soggetti riconoscibili, dettagli della vita quotidiana. Immagini che appartengono all’immaginario collettivo. Un urban artist come lui per accedere ai grandi dell’arte deve avere tecnica, fortuna, ma soprattutto un’idea. Quell’intuizione in grado di cambiare le regole del gioco. Nick Smith, scozzese di Glasgow, 41 anni, è partito dai colori e li ha reinterpretati, dando alle opere una nuova prospettiva, misteriosa e accattivante, ricostruire i nostri ricordi come i pezzi di un emozionante puzzle colorato. 

Ci parli dell’opera che pubblichiamo in anteprima sul Messaggero.

«Si tratta di un’elaborazione di Jeanne Hébuterne (au foulard) di Amedeo Modigliani, dipinto - parlo di quello dell’artista italiano - venduto all’asta per circa 45 milioni di euro. Fa parte del mio progetto Priceless, sulle cifre esorbitanti che raccolgono le case d’asta. È composto da 837 chip di colore grandi due centimetri per tre. L’idea è di prendere un’opera così e dare un valore a ogni singolo Pantone. Ogni chip di colore ha un elemento testuale integrato messo su carta per creare una rappresentazione astratta dell’originale».

Cos’è per lei l’arte, oggi?

«Una riflessione che esplora la nostra umanità. Prima ero un designer commerciale che creava arte marginalmente. Mano a mano che la mia carriera è andata avanti sono riuscito a diventare un artista “libero” in grado di guadagnarsi da vivere così».

L’Urban Art ha la stessa forza che aveva dieci anni fa?

«Il contesto è completamente cambiato, e c’è stata di sicuro una grande esposizione, l’energia e la carica innovativa, però, mi sembrano ancora intatte».

Qual è stata la sua formazione?

«Ho un master in Design e ho lavorato dieci anni a Londra come interior designer».

 Quando ha capito che poteva vivere d’arte?

«Nel 2015 durante l’inaugurazione della mia prima mostra alla Rhodes Contemporary Art di Londra, una delle migliori gallerie al mondo.

Il risultato economico di quella serata ha superato di molto il mio stipendio annuale di designer».

Qual è la sua routine quotidiana?

 «Lavoro in casa, ma ultimamente sono riuscito a separare lo studio dall’ambiente familiare. Di solito mi sveglio e mi godo la famiglia fino alle 9. Poi comincio. La mente deve essere libera da pensieri laterali e posso arrivare fino a sera. Vivendo sulla meravigliosa costa occidentale della Scozia, però, quando c’è il sole l’arte può anche aspettare».

Che rapporto ha con il mercato, i marchi, i progetti dedicati?

 «Con il mio background di designer, sereno. Per poter lavorare con loro devo rispettare il prodotto o avere un interesse personale. Se mi piace, bene. Altrimenti, lascio perdere». 

Come ha avuto l’idea del Pantone?

«A Londra, lavoravo nel design di interni commerciali. Dopo le riunioni, le scrivanie erano piene di campioni di colore strappati che erano semplicemente troppo attraenti e preziosi per essere gettati via. Li ho raccolti in una piccola ciotola e durante alcune videochiamate ho fatto dei test. Un collega mi ha sfidato a creare la Marilyn di Andy Warhol, sono andato a casa e ho creato grossolanamente il primo campione di colori di Nick Smith. Era il 2010».

Le sue opere decostruite ruotano intorno a un sottile equilibrio tra immagini e narrativa. Come seleziona i soggetti?

«Può iniziare in due modi: con un concetto generale o un’immagine iniziale che mi affascina. Poi inizio a raccogliere testi, immagini e materiali vari sperimentando tecniche di elaborazione digitale. Poi inizia, il bello: arrivano i colori». 

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