Da Brunelleschi a Jerram, su Sky Arte i segreti delle grandi cupole del mondo

Da Brunelleschi a Jerram, su Sky Arte i segreti delle grandi cupole del mondo
di Ilaria Ravarino
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Giovedì 14 Maggio 2020, 17:21
Pane e melone consumato a casa, poi una passeggiata sotto al sole estivo, dritto fino al cantiere dove gli operai lo aspettano per posare le prime pietre di quella che diventerà la più grande cupola in mattoni al mondo. Così, nel 1420, Filippo Brunelleschi dava il via alla costruzione di una delle più complesse imprese ingegneristiche e architettoniche di ogni tempo, la cupola di Santa Maria del Fiore, sospesa a 116 metri d’altezza sul panorama di Firenze. A 600 anni dalla costruzione di quell’opera Sky Arte ne celebra in due puntate il mito, attraverso un viaggio tra capolavori antichi e meraviglie moderne, con lo speciale Brunelleschi e le grandi cupole del mondo di Claudio Poli (prodotto da Sky Arts Production Hub), in onda il 14 e il 21 maggio alle 21:15 su Sky Arte e in streaming su Now Tv. Un documentario che non si limita a mostrare i capolavori dell’arte, ma che ne indaga una forma specifica, quella della cupola, che ha accompagnato l'umanità fin dai primordi ispirando architetti come Renzo Piano, Norman Foster e Daniel Libeskind e artisti come Luke Jerram. Proprio a Jerram Sky Arte ha commissionato una cupola contemporanea ispirata al Brunelleschi, il Palm Temple, oggi nell’università di Bristol dopo il passaggio a febbraio a Londra, e tra le opere d’arte più singolari raccontate nel documentario di Poli.

Jerram, da dove nasce l’idea per la sua cupola?

«Dopo aver girato il mondo con la mia ultima opera, Museum of the Moon, sono stato contattato da Sky Arte per realizzare un lavoro ispirato al Brunelleschi. Ho cominciato studiando i diversi tipi di cupole che esistono al mondo, e alla fine ho scelto una forma particolare, una cupola in sezione, con due ali che si uniscono come mani in preghiera. Per questo l’ho chiamata “Palm Temple”, tempio dei palmi».

Le cupole sono dedicate a Dio: anche la sua?

«Non volevo un altro tempio dedicato al cristianesimo. A ispirarmi è stata piuttosto la Natura. Per questo, all’interno della cupola, ho posizionato la “campana dell’estinzione”. È un oggetto che ha già fatto il giro dei musei e degli zoo nel mondo, e che suona a intervalli regolari tra le centocinquanta e le duecento volte al giorno. Ogni rintocco simboleggia una specie animale in via d’estinzione, secondo il rapporto ufficiale delle Nazioni Unite del 2017».

Per lei l’arte è politica?

«Come artista sono nella posizione di poter lanciare dei messaggi. E in questo momento mi pare che l’attenzione ai temi ambientali sia più che urgente. Me ne sono occupato anche attraverso altre opere: provoco sempre domande, non cerco di dare risposte. Mi piace l’idea di poter stimolare una riflessione nel pubblico, innescare un dibattito su cosa si possa fare per cambiare le abitudini più tossiche dell’uomo. Gli artisti hanno un ruolo importante nel comunicare e rendere accessibili le complicate statistiche prodotte dalla scienza, creando connessioni attraverso idee e intuizioni.
Le opere d’arte possiedono sempre diversi livelli di comprensione: se a entrare nella mia cupola è un bambino, o un architetto, probabilmente vedranno e sentiranno cose diverse
».

Perché espone spesso fuori dai musei?

«Alcune opere d’arte possono vivere nei musei e nelle vetrine, altre esistono solo all’aperto. Tante persone non si sentono a loro agio nelle gallerie d’arte, o semplicemente dove vivono non ci sono. Se ricevo denaro pubblico per un’opera, voglio restituire quell’opera alla comunità. Con Play Me, I'm Yours, ho installato 1.700 pianoforti nelle strade del mondo. Con Museum of the Moon ho portato la riproduzione della luna in 25 paesi, partecipando a un centinaio di festival diversi. E ovunque andassi, l’opera acquistava significati personali: negli Stati Uniti la luna ricordava a tutti la missione nello spazio, in India era legata all’induismo, in Cina al festival delle stagioni».

Partecipa a tutte le fasi della creazione delle opere?

«Sì. Mi piace lo sviluppo, la sfida legata alla costruzione, la scelta del materiale e del gruppo di artisti con cui lavorare. E soprattutto mi piace essere sorpreso. Un’opera d’arte è riuscita quando è incontrollabile, quando non puoi prevederne del tutto gli effetti. Ho seminato pianoforti nelle strade del mondo, e ho provocato conseguenze inaspettate: qualcuno si è conosciuto così e poi si è sposato, qualcun altro ha rimediato un contratto con un’etichetta musicale. Le vite sono cambiate. Mi piace questa carica potenziale».

Poi però l’idea dei pianoforti è stata copiata ovunque. Le dispiace?

« Adesso lo fanno gli aeroporti e le stazioni, il piano in strada è diventato parte della cultura pop. Vuol dire che era una buona idea. Essere copiati è inevitabile, succede anche a chi scrive: arriva un blogger, o uno studente, e prende pezzi delle tue cose per metterli nelle sue. Va bene, purché tu ne sia informato. E possa eventualmente dire di no».

Lei lo ha fatto?

«Mi hanno chiesto la luna per una pubblicità. Ho detto di no: come artista hai sempre l’ultima parola».

Recentemente ha lanciato il progetto della “poesia sul pane”. Di che si tratta?

«Mi piace la poesia, ma non ho cultura in materia, non la conosco. Di fronte alla poesia provo un piacere del tutto soggettivo. Ho chiesto a dieci poeti di scrivere delle composizioni e le ho fatte stampare su carta di riso applicata intorno al pane, sfornato in cinque panetterie inglesi. Mi piaceva l’idea di una famiglia che si riunisce intorno al tavolo della colazione e legge le poesie. E le mangia, magari, visto che la carta è edibile. L’idea: digerire la cultura come si digerisce il pane».
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