Ami Vitale: «Anche la fotografia può salvare la natura»

di Nicolas Lozito
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Mercoledì 21 Novembre 2018, 09:13 - Ultimo aggiornamento: 27 Aprile, 12:41


«La natura non ha bisogno di noi, ma noi abbiamo bisogno della natura». Ami Vitale lo ripete come un mantra, come fosse un grido di battaglia. Foto-giornalista americana classe 1971, ha alle spalle un curriculum da fare invidia ai grandi maestri: più di 100 paesi visitati, sei World Press Photo vinti, la collaborazione fissa con il National Geographic. La bellezza degli scatti di Vitale sta nel saper catturare l’unicità del rapporto uomo-animale, in tutte le sue sfaccettature più fragili e intime. Gli ultimi rinoceronti. Le carezze agli elefanti. I panda salvati dall’estinzione. Per la reporteroggi si aggiunge un’altra medaglia: è la fotografa del calendario Lavazza 2019. Un giro del mondo in 12 mesi che mostra l’interazione tra arte e natura in sei Paesi diversi diventati esempio di sostenibilità. 

Un calendario Lavazza a impatto zero: gli artisti interagiscono con la natura

 


Vitale è in Italia per il lancio ufficiale del calendario, che presenterà ufficialmente domani alle 18 nella perfetta cornice della Nuvola Lavazza di Torino insieme a Francesca Lavazza – curatrice del calendario – e i sei artisti internazionali che hanno preso parte al progetto ideato dall’azienda piemontese insieme allo Studio Testa. Incontriamo vitale su un divanetto dentro una suite d’albergo: «È tutto così diverso qui, fino a ieri ero in Niger e fra pochi giorni ritorno lì: sto seguendo un lavoro su una riserva di giraffe». 
 
Vitale, abbiamo visto dei video di backstage del calendario. Per fare le foto ha nuotato tra le mangrovie del Kenya, scalato i ghiacciai. È stata una sfida difficile?
Abbiamo lavorato al calendario in luoghi molto diversi. Quattro continenti, sei Paesi: non è stato facile. Nel deserto del Sahara, in Marocco, faceva un caldo incredibile. Poi ho dovuto scalare i ghiacciai del Rodano, in Svizzera. Poi ancora, in Kenya, per fotografare dovevo galleggiare su un piccolo materassino tra le mangrovie. La vera sfida però è stata trovare le giuste storie da raccontare. Sul posto c’era già l’artista, ma dovevamo trovare insieme il modo giusto per rappresentare l’opera e il luogo, le persone e il panorama, in maniera interdipendente, ma distinta. Un impegno intellettuale, di pensiero, molto diverso da quello fisico, ma fondamentale». 

Le sue foto, sia quelle del calendario sia i tuoi lavori precedenti, sono molto diverse dalle foto naturalistiche tradizionali. Come nasce il suo linguaggio?
«Siamo abituati a vedere due tipi di foto che ritraggono la natura. O i luoghi incontaminati, perfetti, lontani dall’uomo. O foto di forti violenze, di degrado e distruzione, che ci tolgono qualsiasi speranza di salvezza. Ma io voglio concentrarmi sulla coesistenza tra uomo e natura. E cercare quelle storie che possono ridare speranza, mostrare quelle persone che con fatica e ottimismo provano a cambiare il destino di un luogo». 

Però fino a 10 anni fa si occupava soprattutto di conflitti.
«È vero, ma già allora mi rendevo conto che osservandoli bene, alla fine, tutti i conflitti nascono o portano in seno questioni naturali, ambientali, di risorse. La vera sveglia per me è suonata quando per la prima volta mi sono occupata dei rinoceronti bianchi. Dovevo seguire il trasferimento di alcuni esemplari, tra gli ultimi al mondo della specie, da un centro in Repubblica Ceca a una riserva in Africa. Con i miei occhi ho visto cosa significava la parola estinzione. I rinoceronti sono vissuti per milioni di anni senza problemi, ora sono quasi tutti morti per colpa nostra. Ho deciso che era importante raccontare questo problema, ma soprattutto concentrarmi sugli sforzi per salvarli». 

Torniamo ancora indietro. Come ha cominciato a fotografare? 
«Ero una bambina molto introversa e il mondo davvero mi faceva paura. Poi mi hanno dato una fotocamera in mano ed è stato incredibile. Ho sentito una forza, un senso di potenza e legittimazione. Ho capito che era un modo per conoscere persone e posti, vedere il mondo. Soprattutto, con il tempo, ho capito che è un modo incredibile per coinvolgere, per amplificare le storie di alcune persone e raggiungerne altre. La fotografia trascende le lingue, è un linguaggio che tutti possono comprendere, a prescindere dalle culture e le origini. Ha il potere di connettere e di avere un forte impatto».  

Quali consigli dà ai giovani fotografi che vorrebbero fare come lei? 
«Non voglio darlo solo ai giovani. E non solo ai fotografi, ma a tutti. Trovate e usate la vostra voce. Che siate paesi, scrittori, film-maker o fotografi. È questo il segreto dello storytelling: usare la propria voce per sorprendere le persone, cambiare come vediamo il mondo. C’è davvero la possibilità di cambiare la narrazione, e così cambiare le cose. Nei conflitti, nelle tragedie, nelle situazioni peggiori bisogna trovare la speranza e raccontarla. Bisogna però andare in profondità, con le storie che conosciamo meglio, e provare a coinvolgere più persone: troppe poche sono coinvolte dai temi importanti per la salute del nostro Pianeta».

Su Facebook la sua foto profilo la mostra distesa nella foresta, con una camera in mano e un costume da panda che le copre anche il viso. Può raccontare la storia dietro quello scatto? 
«Ecco, è un esempio perfetto di quello che stavo dicendo. Quando mettiamo vicino Cina e questioni naturali e ambientali, pensiamo che lì sia tutto un disastro. Non è così: lì c’è una riserva che ha letteralmente salvato i panda. Li ha portati da specie a rischio estinzione ad animali fuori pericolo. Hanno cominciato con pochi individui, cresciuti in cattività, con l’obiettivo di arrivare ad almeno 300 esemplari, necessari per avere un patrimonio genetico sufficientemente vario. 
Ho seguito questa storia per molti anni.

A un certo punto il team di ricerca è riuscito a reinserire i panda nella natura. Ma per farlo dovevano tagliare qualsiasi rapporto tra panda ed essere umani. Così sia i ricercatori sia io dovevamo vestirci con questi costumi enormi da panda, dovevamo persino spruzzarci dell’urina di panda addosso. Dovevo indossare anche una maschera. Era l’unico modo per poter continuare a interagire con loro. E per raccontare la loro storia e difendere i progressi fatti. Ma senza mai più interferire». 

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