Caro Massimo, ultimo utopista e infaticabile cronista del bello

Massimo Di Forti nelle strade di New York
di Fabio Ferzetti
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Mercoledì 13 Luglio 2016, 18:18 - Ultimo aggiornamento: 18:22
Caro Massimo, abbiamo lavorato tanti anni insieme e non abbiamo mai capito una cosa fondamentale quanto evidente. Non eri solo un giornalista. Eri un utopista, che approfittava del suo lavoro per incontrare le più belle menti della scena internazionale (menti e talvolta corpi, perché fra mille altre cose hai sempre seguito anche moda e modelle). Costruendo poco alla volta, senza stare a sottolinearlo, un sommesso ma tenace messaggio di pace e fratellanza sotto forma di inchiesta, di intervista o di semplice reportage su una mostra, un personaggio, un'iniziativa civile o culturale.

Che questa fosse la tua missione segreta abbiamo iniziato a intuirlo quando pochi mesi fa hai pubblicato un libretto che riassumeva in nemmeno ottanta pagine una vita di studi e di letture smontando il luogo comune secondo cui la dimensione bellica sarebbe connaturata alla nostra specie per difendere invece l'idea che dalla guerra si possa guarire, come da una nevrosi.

L'ARTE DELL'INCONTRO
Ma questa sensazione si è fatta certezza quando a Un futuro senza nemici si è aggiunto un altro volumetto, non meno agile e prezioso, che raccogliendo una serie di interviste con Jane Goodall, la primatologa che ha dedicato la vita allo studio degli scimpanzè, ribadiva l'essenza del suo e in qualche modo anche del tuo lavoro. L'incontro fra specie diverse come punto più alto della comunicazione, che è l'opposto della competizione. Il contatto, pacifico, fra l'essere umano e un suo probabile antenato, come simbolo di quell'interesse superiore, estraneo a ogni logica di potere, era il centro nascosto di tutto il tuo lavoro di giornalista culturale.

Basta pensare a quanto tu sia sempre stato alla larga dal potere appunto, una sirena irresistibile invece per tanti giornalisti, per capire il tuo lavoro. Ma anche l'incredibile varietà dei tuoi interessi e la capacità non meno sbalorditiva di parlare le lingue più diverse. Che intervistassi Totò o il Nobel per la medicina Renato Dulbecco; che parlassi di architettura con Zaha Hadid o cercassi il segreto nascosto negli occhi luminosi e dolenti di Lauren Bacall, a starti a cuore davvero in fondo erano sempre le stesse cose. La bellezza. La capacità di costruire armonia (ecco la passione per l'architettura) e quella di cogliere la grazia di un momento (fotografia, cinema, moda).

Senza dimenticare il fuoco per le radici della conoscenza che ti portava a studiare e incontrare filosofi e massmediologi, astrofisici e psicanalisti, storici ed economisti, sempre mosso dalla speranza - utopistica? - di migliorare il mondo con la bellezza e l'intelligenza. Anche per questo ogni anno te ne andavi a New York, quasi una seconda casa dove ricaricare batterie, riordinare le idee.

E magari scoprire che malgrado secoli di storia e di pensiero, quanto a conoscenza dell'umano nessuno aveva superato il paradosso dell'amato Erasmo da Rotterdam: «...Questo corpo rivestito di morbida e leggera pelle... vi pare possibile che il Creatore abbia fatto un essere come questo per la guerra?». Eccola la parola chiave di tutto il tuo lavoro, Massimo. La pelle, questo organo meraviglioso e ancora in parte sconosciuto che dal primo giorno di vita ci mette in comunicazione con il mondo. Altro che Thanatos insomma. «Eros può vincere la partita. Deve», scrivevi in quello che purtroppo resterà il tuo ultimo libro. Ma perché vinca bisogna volerlo.
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