Gli uomini che fecero l'impresa

Gli uomini che fecero l'impresa
di Marco Gervasoni
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Giovedì 1 Novembre 2018, 15:20
SE, per dirla con il poeta inglese John Keats, la sconfitta è orfana e la vittoria ha molti padri, quella italiana nella Grande Guerra fu più che mai collettiva. È stata quella dei fanti contadini e delle trincee, ma anche quella del cosiddetto fronte interno, operai e operaie occupati nelle fabbriche di guerra, degli imprenditori che si convertirono alla produzione bellica, della borghesia che sposò con convinzione il sostegno alla patria, delle classi colte che misero il loro sapere al servizio dello sforzo bellico, della chiesa che in tal modo sanò in parte la cesura provocata da Porta Pia. 

LA COLLETTIVITÀ
Mentre altrove la vittoria è associata a una figura sola (il presidente del Consiglio Georges Clemenceau per la Francia, il re Giorgio V per il Regno Unito, il presidente Woodrow Wilson per gli Usa) in Italia è infatti più difficile intravedere chi possa intestarsi il trionfo. Forse perché, più che per altri paesi vincitori, solo un anno prima della fine del conflitto pochi contavano sull'Italia, dopo il crollo di Caporetto che portò a un passo dal fallimento ma al tempo stesso fu occasione di riscossa. 

E gli uomini più determinanti della vittoria furono, non a caso, quelli che entrarono in scena appena dopo Caporetto, capaci di rialzare il paese e di condurre l'impresa in porto. Dovettero combattere contro vari nemici, l'Austria-Ungheria e la Germania, ma anche contro alleati tiepidi e infidi (Francia soprattutto) che sottovalutavano l'Italia. E infine dovettero fronteggiare quello che allora veniva chiamato partito dello straniero: tutti coloro che avrebbe voluto arrendersi, lasciare l'Italia sotto il giogo teutonico. Partito dello straniero era certamente il Psi: unica forza socialista di un paese importante a non essersi schierata a fianco della propria nazione. Poi il partito dello straniero albergava in una parte della Chiesa. Ma almeno erano entrambi in buona fede, e pubblici. Il più infingardo si celava invece all'interno della classe politica di governo, tra i deputati della maggioranza, tra i direttori di alcuni giornali, presso una parte della borghesia e della burocrazia statale, persino in certi gangli dell'esercito. Non erano spie, che pure in Italia pullulavano, ma erano legati materialmente e spiritualmente agli interessi tedeschi e austriaci, nutrivano scarsa fiducia nei confronti dell'Italia e temevano che la guerra avrebbe finito per democratizzare il paese, concedendo maggior potere alle masse. 

GLI EROI
Il meno esposto al duplice fuoco, austro-tedesco fuori e disfattista all'interno, fu quello che, nella memoria, è più associato alla battaglia di Vittorio Veneto: il generale Armando Diaz. Napoletano, 57 anni, dopo Caporetto aveva sostituito il generale Cadorna, additato come responsabile della disfatta. Suo il proclama della vittoria, registrato su fonografo e diffuso ovunque: a risentirla oggi (la si trova facilmente in rete) la sua voce, con lieve cadenza napoletana, marziale eppure calda, regala sempre un fremito. Oltre ai meriti strategici, Diaz capì che il soldato di trincea era la pedina essenziale da coinvolgere più di quanto non avesse fatto Cadorna: ascoltare i bisogni dei fanti senza ricorrere (o solo in parte) ai plotoni di esecuzione ridiede fiducia e compattezza all'esercito. 
Il secondo protagonista della vittoria fu il presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando. Siciliano, 58 anni, eminente giurista, era diventato premier dopo Caporetto. E aveva contribuito a mettere ordine in un sistema politico che, fino ad allora, anche grazie alle mene del partito dello straniero, si era sfilacciato. Compattò l'esecutivo come luogo della decisione e riuscì a disciplinare il Parlamento. E se intensificò la repressione interna contro i disfattisti (ma mai come in Francia e in Usa) promosse anche la collaborazione tra imprenditori e sindacati per potenziare la produzione bellica. In ciò fu spalleggiato da Leonida Bissolati. 

Cremonese, 61 anni, socialista riformista, ministro dell'Assistenza militare nel governo Orlando, introdusse una sorta di primitivo welfare per i tantissimi orfani e vedove, per i mutilati e invalidi, e fece da trait d'union tra i vertici militari e il governo. La vittoria fu, naturalmente anche quella della monarchia e del re Vittorio Emanuele III, allora quarantanovenne. 

IL SOVRANO
La memoria dell'età repubblicana e gli storici hanno sottovalutato la figura del sovrano, invece fondamentale; da un punto di vista politico il suo peso sul governo, prima del 1915 discreto, si fece assai più evidente, come prevedeva esplicitamente lo Statuto albertino. Sul versante simbolico poi egli incarnò davvero la nazione. La vittoria in una guerra che il re aveva voluto (era stato uno degli attori principali che spinsero ad entrarvi) fu il coronamento di quel Risorgimento che Carlo Alberto aveva iniziato, Vittorio Emanuele II aveva quasi compiuto e ora il nipote portava a termine. 

IL SIMBOLO
Sul piano simbolico, ma anche militare, non possiamo però dimenticare Gabriele D'Annunzio. Abruzzese, 55 anni, il Comandante fu forse la voce più udita all'estero, il maggior mitografo della Grande guerra che però, a conflitto non ancora finito, il 24 ottobre, di fronte ai sospetti che gli alleati non fossero poi veramente tali, scrisse sul Corriere della sera Vittoria nostra non sarai mutilata. E i festeggiamenti durarono poco, perché il paese fu subito coinvolto in un'altra guerra, diplomatica stavolta, contro francesi e inglesi.
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