È morto Paolo Villaggio a Roma: l'attore genovese aveva 84 anni
Da megadirettore a galattico:
se parliamo come Fantozzi

È morto Paolo Villaggio a Roma: l'attore genovese aveva 84 anni Da megadirettore a galattico: se parliamo come Fantozzi
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Lunedì 3 Luglio 2017, 07:41 - Ultimo aggiornamento: 4 Luglio, 01:04

È morto alle 6 di questa mattina a Roma l'attore Paolo Villaggio. Aveva 84 anni e da alcuni giorni era ricoverato nella clinica privata Paideia.
 

 

Era nato nel 1933 nel capuoluogo ligure e dopo un'adolescenza segnata dalle ristrettezze della guerra era stato assunto come impiegato contabile alla Consider.
 


Un ambiente da cui trarrà ispirazione per il suo personaggio più famoso, il ragioniere Ugo Fantozzi, protagonista di tre libri tradotti in tutto il mondo e quindi di film divenuti subito cult. Fra i primi a scoprirlo e ad incoraggiarne la carriera artistica ci fu Maurizio Costanzo, affascinato dall'amara ironia a volte anche feroce dei personaggi di Villaggio.

La figlia. «Ciao papà, ora sei di nuovo libero di volare»: con un post su facebook, poche parole ed un cuoricino, Elisabetta Villaggio saluta il papà. Il messaggio è accompagnato da una foto in bianco e nero che ritrae Paolo Villaggio da giovane insieme ai figli.


La camera ardente. La stessa Elisabetta, affiancata dal fratello Pierfrancesco davanti alla clinica, ha espresso il desiderio che la camera ardenta venga allestita in Campidoglio mentre il commiato finale potrebbe avvenire mercoledì pomeriggio alla Casa del Cinema a Villa Borghese. 
«Un rapporto complesso». Così riassumono il loro legame col padre: «Non è stato un rapporto facile, perché mio padre era assente, come molti di quelli che fanno questo mestiere - spiega Pierfrancesco - e ultimamente ho avuto occasione di stare vicino a lui, perché abbiamo lavorato insieme. E questo ci ha permesso di instaurare un rapporto che non c'era mai stato». Anche Elisabetta ha parlato di un rapporto complesso, «ma mi ha insegnato ad essere più forte. Non era una persona semplice in senso assoluto».


L'attore. Quante facce o quante maschere ha indossato il genovese Paolo Villaggio nella sua vita da perenne ragazzo ed eterno scontento. Con lui, nato il 30 dicembre 1932 da padre siciliano e madre veneziana, ma ligure fino al midollo nel suo mix di cinismo e romanticismo anarcoide, si chiude una pagina della vita italiana, perché Villaggio non è stato solo attore, scrittore, autore e istrione tra radio e tv; era la cattiva coscienza dell'Italia degli anni '70 e, a suo modo, lo è rimasto anche negli anni del suo «autunno da patriarca».

Nato nella borghesia facoltosa e moderna dell'Italia del dopoguerra, del suo essere bambino ricordava l'obice scagliato da una nave inglese che colpì per errore il suo quartiere mettendolo, mano nella mano al fratello gemello Piero, di fronte all'orrore della morte. Dall'adolescenza emergono invece i ricordi di una giovinezza matta e spensieratissima, tra sbadati studi in legge, incursioni nel cabaret e nel teatro amatoriale, lunghe vacanze con gli amici, primo fra tutti con Fabrizio De André che lo spinse anche a suonare e cantare. Del resto il suo esordio nel mondo dello spettacolo coincide con il testo della ballata «Re Carlo tornava dalla guerra» che fece notare De André anche per l'accusa di turpiloquio scagliata da un procuratore siciliano. Non erano ancora i tempi di «Marinella» e i due non fecero altre prove in comune pur restando amici per sempre.

All'inizio degli anni '60 Villaggio va a lavorare in fabbrica (una delle maggiori aziende europee di impiantistica), ma qui capiscono in fretta il soggetto e lo mettono a organizzare le feste aziendali. Intanto ha fatto il suo tirocinio da palcoscenico con la compagnia goliardica Baistrocchi in cui si esibisce in esilaranti numeri da cabaret che gli serviranno da modello per le sue maschere diventate poi celebri: il travet timido, l'imbonitore aggressivo, l'eterno sconfitto. Da qui alla notorietà il salto alla fine si rivelerà breve, sia grazie alle buone compagnie frequentate al «Derby» di Milano, sia per merito di Maurizio Costanzo che lo porta a Roma, lo fa debuttare a teatro, lo impone alla radio. Da lì, complice il desiderio di rinnovamento della tv di stato, Villaggio scala in fretta i gradini della celebrità: «Quelli della domenica» (dove debuttano il Professor Kranz e il nevrotico Fracchia), «Canzonissima», «Gran Varietà» alla radio. Sono gli ultimi momenti degli anni '60 che Villaggio fa suoi insieme ad ormai buoni compagni di strada come Enrico Vaime, Cochi e Renato, Gianni Agus, Ric e Gian. Nel '68 debutta al cinema con il misconosciuto «Eat it!».

Ma saranno gli anni '70 a far passare Villaggio alla storia: prima con l'invenzione letteraria del ragionier Ugo Fantozzi (un travolgente successo in libreria) e poi con la sua versione cinematografica che si concretizza nel 1974 per la regia di Luciano Salce e la produzione Rizzoli. Saranno alla fine 10 i capitoli della saga che porteranno il Ragioniere fino in Paradiso e oltre. Nel frattempo Villaggio è diventato un «nome» cinematografico alternando incursioni d'autore (con Monicelli per «Brancaleone alla crociate», con Gassman che ne fa la sua spalla preferita, con Pupi Avati all'esordio, e con Nanni Loy) e grandi successi di cassetta che si ripeteranno per tutto il decennio successivo, quasi sempre con la complicità di Salce, Sergio Corbucci, Neri Parenti. La sua comicità mischia ironia surreale e satira reale in un costante passare da Cechov alle comiche del muto, dall'osservazione sociale al teatro dell'assurdo. Se ne accorgeranno tardivamente i critici, ma non saranno in ritardo Federico Fellini che gli dedicherà il suo ultimo film, «La voce della luna» in coppia con Benigni, Giorgio Strehler che lo porta a teatro con «L'avaro», Ermanno Olmi («La leggenda del bosco vecchio» da Buzzati), Lina Wertmuller («Io speriamo che me la cavo»), il veterano Monicelli («Cari fottutissimi amici»), Gabriele Salvatores («Denti»). Sono per Villaggio gli anni '90, intristiti dai problemi fisici e da una delusione per l'Italia e l'utopia socialista infranta che lo porterà fino a uno sconsolato endorsement a Beppe Grillo («un conterraneo per cui ho provato vera invidia»).

Dimenticato dal cinema, Villaggio si rifugia nella pubblicistica, sempre accompagnata da buon successo di vendite, nel teatro e nella critica pubblica in cui mantiene sguardo acuto sulla società che cambia. Nella vita artistica non gli sono però mancati gli onori: Gillo Pontecorvo gli conferì nel 1992 un inatteso e rivoluzionario Leone d'oro alla carriera (il primo mai dato a un comico); due anni prima Fellini gli aveva fatto vincere il David di Donatello come miglior attore (ne avrebbe vinto un secondo alla carriera nel 2009); infine ecco il Pardo d'oro di Locarno nel 2000. Amava provocare e dare scandalo; ogni intervista si traduceva in un esilarante combattimento verbale, ogni apparizione in una sorpresa anche per le fogge personalissime che aveva scelto con una predilezione per i caftani bianchi e i berretti orientali. È stato un padre difficile per i suoi due figli e un marito affettuoso con la moglie Maura che per 60 anni ha diviso con lui la vita. Ma alla fine è stato soprattutto quel Fantozzi di cui il critico Paolo Mereghetti scriveva «Fantozzi, come la maggioranza dell'umanità, non ha talento. E lo sa. Non si batte né per vincere né per perdere ma per sopravvivere. E questo gli permette di essere indistruttibile. La gente lo vede, ci si riconosce, ne ride, si sente meglio e continua a comportarsi come Fantozzi». Ieri come oggi.

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