Venezia 78, il regista di Becoming Led Zeppelin: «Niente sesso e drogra? È un film sull’arte»

Venezia 78, il regista di Becoming Led Zeppelin: «Niente sesso e drogra? È un film sull arte»
di Ilaria Ravarino
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Lunedì 6 Settembre 2021, 19:46 - Ultimo aggiornamento: 21:56

«È mattina o sera?», si informava gentilmente un confuso Jimmy Page nei corridoi della Biennale, il giorno della presentazione alla Mostra di Venezia (di mattina, per la cronaca) di Becoming Led Zeppelin di Bernard McMahon, il primo documentario ufficiale, e il solo autorizzato dal gruppo, sulla storia dell’omonima, celebre band inglese. Unico a partecipare alla Mostra (assenti gli altri superstiti, il cantante Robert Plant e il bassista John Paul Jones), il chitarrista Page, 77 anni, era alloggiato in un albergo di Venezia, il St Regis Venice Hotel, tenendo in forse fino all’ultimo la sua partecipazione alla Mostra. Un piccolo capriccio da rockstar, niente di paragonabile agli epici scandali che hanno accompagnato il travolgente successo della band britannica nel corso della sua lunga carriera: storie di sesso (particolarmente vivace il curriculum di Plant), di droga (Page fu dipendente dall’eroina) e di eccessi (la morte del batterista del gruppo John Boonham, nel 1980, dopo una notte selvaggia), la presunta affiliazione al satanismo (Page credeva nella filosofia dell’occultista Aleister Crowley) e una mole di leggende metropolitane tra cui la famigerata “pesca allo squalo” all’Edgewater Inn, nel 1969 (in rete c’è un’intera letteratura sul caso).

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Favole nere comuni a tante rock band, di cui tuttavia il documentario di McMahon, che potrebbe avere presto una distribuzione in Italia, non tiene conto: il racconto si concentra soprattutto sulla prima parte della vita del gruppo, la formazione e gli esordi, in lunga messa in fila di più di due ore, tra interviste ai protagonisti e canzoni, che si ferma al terzo album della band, Led Zeppelin III, uscito nel 1970. 

Come ha convinto i Led Zeppelin a parlare?
«Il primo a dirmi di si è stato Jimmy Page.

Volevo continuare a lavorare sulla musica dopo la serie di American Epic (documentari sulla storia della musica contemporanea, prodotti nel 2017 da Jack White e Robert Redford, ndr), e mi interessava concentrarmi sul 1969, perché fu l’anno in cui la tecnologia cambiò l’approccio degli artisti agli strumenti. E il gruppo simbolo di quegli anni, per me, era uno: i Led Zeppelin».

Ma come li ha avvicinati?
«È successo quasi per caso. Da una parte c’ero io che lavoravo al progetto per conto mio. Facevo ricerche, studiavo la band, ho scritto un copione come se stessi girando un film di finzione. Poi un giorno mi chiama un conoscente, dicendomi che un suo amico musicista aveva visto in tv uno dei film di American Epic e voleva recuperare gli altri. Ho fatto un pacchetto con i DVD, gliel’ho consegnato e qualche giorno dopo mi è arrivata un’e-mail: era di Jimmy Page, che mi ringraziava. Gli ho chiesto un incontro, ci siamo visti da lui e siamo rimasti a parlare del mio progetto sugli Zeppelin per sette ore».

La sua prima impressione?
«Non saprei, ero troppo emozionato. Mi sentivo come se stessi portando Excalibur alla corte di Re Artù».

Come sono, oggi, gli Zeppelin?
«Esattamente come li vedete nel film. Sono proprio così. Molto disponibili: se decidono di fare qualcosa, e di solito non decidono nulla, ci si dedicano al cento per cento».

Nel suo film non si parla mai di sesso né di droga. Perché?
«Perché per me il film è una storia di formazione. È il racconto di come si è formato il gruppo, di come attraverso la musica quei ragazzi abbiano raggiunto i loro obiettivi. È una parabola, raccontata attraverso la musica, sulla possibilità di realizzare i propri sogni impegnandosi con intelligenza e energia».

Sì, ma le droghe gli Zeppelin le usavano. Perché sorvolare? 
«Tutte le storie su droghe e sesso arrivano dopo, non se ne parla nei loro primi anni di formazione. Questo è un film che possono guardare e capire anche i ragazzini. È un film che ispira, un film sull’arte». 

Gliel’hanno chiesto loro di non parlarne?
«No. Quando gli ho spiegato che sarebbe stato un film indipendente, non hanno voluto alcun controllo sulla materia. Nessun veto, nessuna manipolazione. Anzi, mi hanno aiutato fornendomi fotografie e informazioni».

Keith Richards nei kolossal per ragazzi. I Sex Pistols in una serie Disney. I Clash nel film Crudelia. I Led Zeppelin “che ispirano”. Il rock è morto?
«La musica e l’intrattenimento si evolvono, cambiano nel tempo. Cos’è il rock? È solo un nome inventato da Alan Freed (storico dj di Cleveland, ndr) negli anni Cinquanta».

Come ha scelto le canzoni nel documentario?
«Ho scelto quelle più importanti per loro e quelle che hanno avuto un impatto più potente nella mia adolescenza».

E i filmati? Dove li ha trovati?
«Ho cercato materiale in tutto il mondo, ed è stato difficile perché il loro manager era  contrario al fatto che la gente filmasse i concerti. Non voleva nemmeno le tv. Loro, infatti, pensavano che non ci fosse abbastanza materiale in giro. Ma io ero convinto di una cosa: se le stelle volevano che si facesse il film, avrei trovato quello che cercavo».

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