Il primo film del guatemalteco Bustamante, classe 1977, orso d’argento a Berlino, è uno di questi film in cui l’antropologia si fa poesia perché l’esplorazione si sposa alla forza di uno sguardo sempre alla giusta distanza dal mondo che tiene letteralmente a battesimo. Mai troppo vicino, ma nemmeno troppo lontano. Né troppo discreto, né troppo insistente. Fino ad accordare il nostro respiro con quello dei personaggi che palpitano sullo schermo, come figure balzate da un mondo remoto dentro al nostro. Senza ombra di esotismo o di miserabilismo.
Il mondo di Vulcano è quello dei contadini poveri del Guatemala. Discendenti dai Maya, non parlano spagnolo ma l’impenetrabile cakchiquel. I protagonisti sono una ragazza, Maria; i genitori che vogliono sposarla al supervisore della piantagione di caffè in cui lavorano, cakchiquel come loro ma più in alto nella scala sociale (infatti sa lo spagnolo, cosa che si rivelerà determinante). E Pepe, un ragazzo svelto che lavora a sua volta nella piantagione e sogna di andarsene negli Stati Uniti, «là dietro il vulcano» (in realtà c’è di mezzo il Messico) anche se Maria ha occhi solo per lui.
Mentre in città, nella civiltà, incombe un destino di sfruttamento perfino peggiore. Che il film racconta senza cambiare registro, senza alzare la voce. Con una forza emotiva e una raffinatezza visiva che lasciano stupefatti. È nato un regista. Uno vero.
VULCANO - IXCANUL
DRAMMATICO, FRANCIA - GUATEMALA, 91'
di Jayro Bustamante. Con María Mercedes Croy, María Telón, Marvin Coroy, Justo Lorenzo, Manuel Antún
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