La sua arte consisteva nel nascondere il grande talento che possedeva. Perché la sua comicità, che sembrava improvvisata, era in realtà un lungo studio di dettagli e "tic". Qualcuno obiettava che il dialetto parlato da Troisi nelle sue commedie era incomprensibile al di fuori di Napoli. In realtà era una lingua universale, la sua. Faceva ridere l'Italia intera senza distinzione perché era il corpo, il gesto a tradurne bene il senso, le espressioni fulminee della sua maschera.
Massimo aveva un viso proletario ed aristocratico nello stesso tempo e una mente raffinata. Ci siamo conosciuti negli anni Ottanta, quando entrambi conquistammo il pubblico con i rispettivi primi film: lui con Ricomincio da tre, io con Bianco rosso e Verdone. Diventammo amici, andavamo spesso insieme al cinema, ci scambiavamo idee e opinioni senza mai sentirci rivali. Ci sfottevamo affettuosamente sul calcio, lui tifoso del Napoli e io della Roma. Mai una rivalità, mai una richiesta di lavorare insieme, mai l'idea di essere interessati a qualcosa nella nostra frequentazione. Un legame di rara sincerità.
Non vedo eredi di Troisi. E mi domando cosa farebbe oggi se fosse ancora vivo. Probabilmente alternerebbe i suoi film anche ad un teatro d'autore di altissimo livello. Avrebbe avuto padronanza assoluta dei suoi mezzi, grazie all'esperienza acquisita negli anni, e più coraggio nel mettersi alla prova. Questo Paese soffre purtroppo di assenza di memoria storica in molti campi, ricordarsi di questo grande talento è doveroso. Chi vorrà intraprendere l'arte della recitazione dovrà studiarlo attentamente: nei suoi monologhi, come nei suoi silenzi.
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