Tracks, la signora dei cammelli

Tracks, la signora dei cammelli
di Fabio Ferzetti
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Mercoledì 30 Aprile 2014, 21:37 - Ultimo aggiornamento: 3 Maggio, 13:33
Quanti cammelli vivono in Australia? La domanda bizzarra, la risposta sorprendente: 50.000. Più che in qualsiasi altro paese al mondo. Merito dei primi esploratori di quelle terre, Burke e Wills, che li importarono nel 1860 perche ideali per il clima arido. Con l’arrivo delle auto però le bestie furono lasciate in libertà. E si moltiplicarono.



L’apprendistato di Robyn Davidson comincia da qui, dai cammelli. E poiché si tratta di un personaggio reale, conviene prendere molto sul serio le sue mosse. Dunque: per trattare con i cammelli bisogna imparare a conoscerli, a addomesticarli, e a sparargli se necessario. È la prima tappa. La seconda passa attraverso gli aborigeni, i loro riti, anche segreti. E le loro credenze, spesso tutt’altro che “femministe”. Senza star tanto a sbandierarlo infatti, Tracks infrange molti tabù del politicamente corretto. Anche per questo forse emoziona tanto. Ma andiamo con ordine.



Nel 1977 Robyn Davidson era una giovane australiana che decise di attraversare il suo paese a piedi con quattro cammelli selvaggi (domati da lei stessa) e un cane. Quasi 3000 chilometri, da Alice Springs all’Oceano, senz’altro aiuto che quello, intermittente, di un giovane e cocciuto fotografo del National Geographic, a lungo visto come il fumo negli occhi per il suo sguardo così turistico, e degli aborigeni incontrati per via.



Tracks però non è un Into the Wild al femminile, semmai ne è il suo rovescio. Infatti non si conclude con la morte ma con la rinascita della protagonista (l’ottima Mia Wasikowska, un po’ adolescenziale per la parte), che aveva ragioni molto personali per intraprendere un’avventura simile.



La Davidson aveva già rievocato tutto in un bel libro, Orme (pubblicato da Feltrinelli). Ma il film di John Curran, pur non uscendo mai dalle convenzioni del cinema ben fatto (molto ben fatto), riesce a restituirci un senso dell’avventura ormai fuori corso. E illumina questo viaggio, che è anche e soprattutto interiore, con una finezza, un rispetto, un’eleganza assai poco comuni nelle grandi produzioni. Riportandoci anche verso quella che fu l’ultima epoca in cui era possibile ribellarsi senza necessariamente finire sotto i riflettori del villaggio globale. Bei tempi. Alla fine il sentimento dominante del film non è l’avventura. È la nostalgia.

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