Tomas Milian e quel viaggio a Cuba sulle tracce del film della sua vita

Tomas Milian e quel viaggio a Cuba sulle tracce del film della sua vita
di Paolo Travisi
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Venerdì 23 Febbraio 2018, 20:39 - Ultimo aggiornamento: 26 Febbraio, 16:21
Tomas Milian torna nella sua Cuba dopo 60 anni. L'aveva lasciata nel 1956, appena ventitrenne, in fuga dal dolore per il suicidio del padre, che la notte di Capodanno del 1946 si sparò un colpo al cuore. Davanti ai suoi occhi. A convincerlo a tornare nella terra delle origini, la determinazione del regista Giuseppe Sansonna, che nel 2014 lo accompagna in questo viaggio della memoria.

Viaggio che si trasforma in un documentario poetico, The Cuban Hamlet, già trasmesso da Rai Movie ed ora pubblicato in un cofanetto, (dvd e libro, Timìa Edizioni) in cui “er cubano di Roma” va “alla ricerca dei passi perduti” per far pace con lo spettro del padre. “Riportarlo a Cuba non è stato facile” ammette il regista, due anni di telefonate transoceaniche e conversazioni nella lingua di Tomas Milian, ispanico-romanesco. “Tomas immaginava l'Avana guardandola da Miami. Proprio lì diventammo amici, quando vide il mio documentario su Rodolfo Valentino – continua Sansonna – e tra noi si creò un forte rapporto umano”.

Il popolare attore, dopo l'Actor's Studio a New York, volò in Italia e trovò la sua fortuna. Prima i film impegnati, poi gli spaghetti-western, ma è con il personaggio del “trucido” e del “monnezza” che sfonda al botteghino. “Era un attore che ha cambiato mille pelli mettendo sempre in gioco il suo talento. Nella sua vita si è dedicato a cucire il romanzo di se stesso. Secondo me tornare sul palcoscenico di L'Avana era un modo per alimentare l'eterno libro della sua vita” sottolinea il regista. Il viaggio-documentario di dieci giorni riporta questo esile ottantenne con il bastone nei luoghi della sua gioventù alto-borghese. Davanti alla casa del padre, ufficiale dell'esercito sotto il regime Machado, per Milian un “tiranno”, l'attore decide di non entrare “non sono masochista” dice nel documentario. “Quel trauma mi ha segnato nel bene e nel male. Nel male perché mi ha fatto crescere non felice. Nel bene perché mi ha lanciato nel cinema. Quello sparo mi ha fatto sentire protagonista di un film”.

Poco più che ventenne infatti, decise di seguire le sue inclinazioni artistiche, portando con sé, come il personaggio di Amleto, lo spettro di suo padre. The Cuban Hamlet, Amleto cubano. “Con Cuba aveva un rapporto di dolore ed amore” prosegue il regista, con Roma invece era solo amore. Il personaggio del monnezza, la sua maschera più popolare, ha creato un legame forte con l'Italia, con i romani in particolare. “L'amore vitale l'ha ricevuto in virtù di quel personaggio. Ispirato al suo amico Quinto Gambi, il pescivendolo di Tor Marancia, il doppio che a volte avrebbe voluto essere. Lui rappresentava la Roma che amava, sboccata e popolare. Ma l'amore di Roma lo prendeva a piccole dosi per non esserne travolto”. Per questo, dopo diversi film di successo in cui interpretava il commissario Giraldi, Tomas Milian, alla fine degli anni Ottanta lasciò il nostro paese. “Va via dall'Italia perché voleva lasciare il personaggio del Monnezza, bello, trentenne, gagliardo, con la barba lucida, i capelli neri e l'aria felicemente sboccata. Voleva che la gente lo ricordasse così”.

Trasferitosi a Miami riuscì ad ottenere ruoli in film di primo piano a Hollywood, recitò per Spielberg, Oliver Stone, Soderbergh “chiude il cerchio della sua carriera, iniziata in America” dice ancora Sansonna, che nel libro ha approfondito aspetti della sua vita (“gli Studios ci farebbero una serie”), completando il lavoro iniziato col docufilm. Due anni dopo il ritorno a L'Avana, Tomas Milian muore. Sansonna lo aveva sentito al telefono pochi giorni prima. “Per me non è morto, perché è un'anima talmente sottile che lo immagino fluttuare da qualche parte nel cosmo”. E quest'anima sottile, davanti all'obiettivo della telecamera, si spoglia di tutte le sue maschere cinematografiche. Il suo rimpianto. “Avrei voluto essere più normale, la vita sarebbe stata più facile. Io ho portato la mia estraneità con dignità, anche con simpatia. E non ho riso di me, ma con la gente”.
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