Silvio Orlando: «Sono un uomo complicato, l'euforia mi angoscia»

Silvio Orlando
di Malcom Pagani
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Domenica 18 Giugno 2017, 16:32 - Ultimo aggiornamento: 24 Giugno, 18:09
Clausole e postille di un antico accordo: «Sono un attore. Un artista senza progetto. Sempre pronto a farsi piacere le idee degli altri, a contenersi, ad annullare la propria intelligenza davanti al regista per non creare imbarazzo diventando ingombrante o antipatico ai suoi occhi. Il patto è chiaro: lui pensa e tu poni in pratica, senza osare metterti di traverso o peggio discutere una visione in cui tu sei solo un pezzo di qualcosa che viene prima di te e ti supera per andare oltre. Non sono mai entrato in competizione con un regista, il che non significa che non abbia mai litigato o che i rapporti siano stati sempre idilliaci, però le regole d'ingaggio mi sono state chiare fin dall'inizio. Qualsiasi sia il grado di complicità, l'attore è un collaboratore».

A meno di due settimane dai suoi primi sessant'anni, Silvio Orlando mangia gamberi in un ristorante e sembra disposto a fare più di un passo indietro: «Non credo di essere un uomo di cinema, di teatro o di televisione. Ho fatto tutte queste cose, ma non sono un senatore che ha conquistato un suo posto o un ruolo all'interno di quel mondo. Oggi, come succede anche a De Niro, mi capita di fare meno film di ieri, ma penso di essere stato fortunato e non conosco la depressione dell'attore perché non mi sono mai sentito di far parte di niente e da niente sono stato buttato fuori. Sono entrato, mi sono fatto un giro ed è finita lì».

Nato a Napoli: «Una città tragica che ha la dannazione di doversi tenere in piedi ogni santo giorno e nella quale ironia e teatralità servono a sopravvivere e a non impazzire», forse per mestiere, Orlando vive da molti anni- apolide e marziano- a Roma «sono ancora in affitto» e potrebbe star bene in molti luoghi e da nessuna parte: «Sono cresciuto nello stesso quartiere di Paolo Sorrentino, al Vomero, il luogo in cui l'alta borghesia napoletana andava storicamente in villeggiatura. Il sogno della piccola borghesia era liberarsi delle case fatiscenti del centro storico per avere abitazioni eleganti e impersonali con il marmo nei bagni, nell'assoluto vuoto di relazioni umane di un quartiere venuto su in fretta, al ritmo febbrile dei primi anni 60. In questo esilio forzato e in questa negazione della bellezza in nome della comodità, non avvertire lo sradicamento è difficile».

Lei lo ha avvertito?
«In modo fortissimo. Quando parli di Napoli, parli di odori, rumori, volti e voci che nella testa delle persone rappresentano qualcosa di molto preciso. Da quel mondo io ero stato strappato a quattro anni per emigrare in alto, al Vomero, la Collina Fleming della mia città. Un posto in cui sentire di avere delle radici per me è impossibile».

Prima ha evocato l'ironia.
«Brecht diceva: Povero quel popolo che non ha senso dell'ironia, ma ancora più povero quello che non può farne a meno. L'ironia è uno schermo, ma quando nega la realtà diventa pericolosa».

Cos'altro è pericoloso?
«Il cinema. Pericoloso e mistificante. Nei due mesi in cui lavori fianco e fianco, ti pare di non poter vivere senza quella persona e che anche l'altra non possa fare a meno di te. Poi si smontano le tende, si fanno le valigie e quando il film è finito, è finito».

Le dispiace?
«Il cinema è un gioco e il gioco ha le sue leggi non scritte. Leggi che dipendono da un telefono che squilla o tace all'improvviso, da chi ti offre un'opportunità e da chi invece te la nega. Dai colpi di fortuna. Dalle occasioni».

E i risultati di questo gioco possono amareggiare?
«Senza farsi prendere dal disincanto o dal cinismo di pensare che siano tutti stronzi, può accadere. Soprattutto all'inizio. Con la maturità prendi le misure, anche nel rapporto con chi ti dirige. Ed l'unico modo di fare il mio mestiere senza esserne devastato».

Dice davvero?
«Per due mesi dormi con tua moglie, il personaggio in mezzo e il regista ai lati del letto. E anche se rifuggi da un percorso stanislavskiano, quella cosa ti scava dentro, ti entra nel subconscio, ti domina. Che tu voglia o non voglia».

Poi?
«Poi si ricomincia. Per definire il nostro percorso non abbiamo fasi, ma soltanto età. Il cinema è interessato agli anni della formazione e racconta bene quell'istante. I 20, i 30, i quarant'anni. Dopo, vedere quel che accade a un uomo, è considerato meno interessante. Hai sessant'anni? È colpa tua. Anche per questo faccio teatro, perché sul palco di quell'età ci si occupa ancora».

Lei sul palco salì presto?
«A metà degli anni 70. Ho fatto di tutto, il secondo bersagliere come lo spettatore».

All'interno di una pièce?
«No, proprio lo spettatore finto. Per giustificare l'inizio dello spettacolo, in caso di controllo della Siae, bisognava sedere in platea e poi compilare surrettiziamente il borderò. Due attori recitavano e io aspettavo le dieci di sera. Dopo la prima battuta, tu staccavi sessanta biglietti falsi e poi alteravi i dati muovendo la penna con pazienza tra le linee».

Ne Il Portaborse di Luchetti, il personaggio che interpretava ammoniva i suoi allievi: «Per esser uomini occorrono i due precetti che Kant fece incidere sulla sua tomba: Il cielo stellato sopra di voi e la legge morale dentro di voi».
«I meccanismi teatrali continuano a essere quelli e per arrivare qua devi passare di là. Sono meccanismi del parastato».

Ogni tanto lei ha incarnato il ruolo del moralista.
«Per dirla con Starnone, ho sempre messo in scena la sinistra patetica. È una cosa di cui sono orgoglioso perché non era così scontato che lo potesse fare proprio un napoletano».

Cos'altro non era scontato ieri?
«Che riuscissi a recitare per 4 decenni. Quando nel 1985 andai a Milano per Comedians di Salvatores mi sembrò di aver raggiunto un risultato enorme, quasi insuperabile».

Lei ha vinto la Coppa Volpi, i David di Donatello, i Nastri d'Argento, il globo d'oro, il ciak d'oro.
«In principio furono le cantine. Il mio mestiere è fatto di tante lune. Sali in cima, cadi, ti rialzi, ricominci a scalare. Se la parabola è lunga, è quasi ineluttabile. Non c'è niente da fare. I problemi non ti toccano soltanto se hai una carriera corta».

Nelle cantine c'erano i topi?
«Capitava di vedere anche i topi, sì. Noi sperimentavamo. Con Antonio Neiwiller, Tonino Taiuti, Renato Carpentieri, Enzo Moscato e Annibale Ruccello lavoravamo a un teatro di parola, idealmente contrapposto a un altro ambito molto figo, molto contemporaneo e di respiro europeo in voga in quel momento. Un'enclave che considerava il teatro tradizionale passato a miglior vita, disprezzava la parola per mettere in scena una rappresentazione votata alla pura immagine. Coreografie. Diapositive».

Sua madre morì presto. Lei è cresciuto con suo padre?
«Nicola, simpatia straordinaria e contagiosa, mi ebbe a 47 anni. Tardi in assoluto e tardissimo per quell'epoca. Dopo qualche avventura da commesso viaggiatore, grazie a un imprenditore milanese, divenne dirigente di filiale d'azienda. Vendeva macchinette fotografiche usa e getta arando il sud palmo a palmo, proprio a cavallo dell'epoca in cui la fotografia, come d'altra parte tutto il resto, passò da hobby d'élite a fenomeno di massa».

Suo padre fece in tempo a godere del suo successo?
«Morì nell'anno de Il portaborse. Aveva visto qualcosa dei miei primi anni in tv e mi aveva sentito bussare alla sua porta con un assegno in mano. Prestandomi dei soldi per sistemare una casetta a Milano, se li era visti restituire. Credeva che non glieli avrei mai ridati. Era così orgoglioso quel giorno. E anche io».

In Ferie d'agosto lei diceva che «Avere molti desideri è come non averne nessuno». Per i sessant'anni desidera qualcosa?
«Tornare a Brescia. Non ci metto piede da 25 anni. Il teatro ti porta in giro, ma certe città- un fenomeno insondabile- le vedi una volta e poi mai più».

Se rilegge il suo percorso come lo giudica?
«Ho fatto buoni film, film medi e schifezze. Sarebbe ridicolo pensare di aver partecipato a dei capolavori perché non è accaduto, ma sarebbe ancora più grottesco pensare di aver fatto una carriera coerente. Sono un attore, gliel'ho detto».

Galleria di registi. Salvatores.
«Gabriele? Un angelo. Gli sono grato e non solo per il lavoro. Mi mise a mio agio e mi fece sentire uno di casa. Non ci conoscevamo neanche da un anno e andammo in vacanza insieme. A Milano, il suo Elfo era mitologico. Rossi, Catania, Bisio. Matti con un talento superiore. Il suo gruppo, proprio come quello in cui mi ero formato a Napoli, non lavorava sul versante della ricerca intellettualistica, ma su quello della pura comicità».

Lei si sentiva comico?
«Non ero figlio d'arte e non venivo da nessun ambiente, ma facevo ridere. È stata la mia fortuna. Avevo solo quella certezza. Era l'unica arma che possedessi. Ero un fungo nato di notte».

E si dava in pasto al pubblico?
«C'era solo questo flusso che mi univa alla gente, una cosa molto prepotente, concreta, sorprendente. Caratterialmente ero molto chiuso».

Non c'è napoletano che non si confronti con il mito di Eduardo o in tempi più recenti, di Troisi.
«Dell'eredità di Eduardo, noi giovani attori napoletani in verità volevamo liberarci. Troisi era una cosa diversa. Incarnava un napoletano altro: mite, non furbo, dotato di inattesa tenerezza. Di Eduardo aveva l'intelligenza e proprio come lui non ha lasciato eredi e non ha avuto maestri».

Se Salvatores era un angelo, Virzì com'era?
«Paolo ha un altro carattere. Capisce le cose prima degli altri. Ha un'arguzia luciferina. Una capacità caricaturale, che si esprime anche nel disegno, di dipingere i personaggi con pochissimi tratti. Sul set di Ferie d'agosto, divertente e quasi autogestito, entrammo davvero nei nostri ruoli e ci sentimmo liberi. Era sempre un baccanale».

Virzì è un uomo simpatico?
«È di Livorno. In un suo libro biografico l'ho definito simpatico, ma non simpaticissimo».

Il set in cui si è divertito di più?
«Nonostante l'argomento, drammatico, sul set de Il papà di Giovanna di Pupi Avati. Pupi è molto sentimentale, divertente e crea un clima delizioso. Mette al centro gli attori, non controlla neanche i giornalieri, il film lo vede direttamente in sala e passa tutto il suo tempo libero con te. A raccontare storie sue e a chiederti le tue: Perché non mi racconti la tua vita?. Io ho anche cominciato a raccontargliela, ma Pupi si è distratto quasi subito. Non mi è stato neanche a sentire. Ma mi ha sempre fatto sentire importante».

Lei è stato fortunato?
«Molto. Ho avuto- e parlo sul serio- un angelo custode che in questi anni mi ha protetto. Lui c'è. Io lo so. Anche se adesso, quando vedo i camion del cinema per strada sono colto da un senso di fatica immediata, con il cinema mi è andata veramente bene. Lei deve sapere che in generale io sono un tipo angosciato e angosciante».

Non si direbbe.
«Mi rendo conto di non ispirare serenità. Sono uno problematico, non un trascinatore o un animatore turistico. Non sono Fiorello. Anche sui set più divertenti, ero sempre preoccupato da qualcosa. Mi angoscia l'euforia. Sarà insicurezza o semplicemente il non essere mai fino in fondo a mio agio. Anche recentemente, alla premiazione del Ciak d'oro, ho fatto più fatica del solito a stare in mezzo alla gente del cinema. Ho visto volti che conoscevo bene. Come esseri umani mi sembravano un po' cambiati e non in meglio perché poi il successo, questo potere a cui tutti quanti ambiamo, ci cambia. Chiude lo sguardo, l'ascolto. Ci fa perdere l'umanità. Ci mostrifica».

È successo anche a lei?
«Penso di sì. La sindrome del Conte di Montecristo non ce l'ho mai avuta però un po' contagiato dal germe lo sono stato di sicuro. Anche nel rapporto strumentale con le donne. Per uscirne, l'incontro con mia moglie è stato fondamentale. Una donna ti mette sempre davanti alla tua mediocrità. Vede le tue mutande. Ti conosce nelle tue bassezze».

Le dispiace quando un regista con cui ha lavorato non la richiama?
«A volte è imbarazzante. Da un lato devi essere eternamente grato a chi ti ha permesso di definirti e ottenere, non solo artisticamente, quello che volevi. Dall'altro, sperare di proseguire se ti sei trovato bene è umano. Pensare che tu possa diventare l'eterna icona di un regista però è una cosa puerile. In Italia, con Paolo Sorrentino, ci è riuscito solo Toni Servillo. Quando Paolo mi ha chiamato per The Young Pope, mia moglie ha pensato a uno scherzo. Sette film aveva fatto Sorrentino senza cercarmi».

Lei ha lavorato molto in un grande decennio che ad alcuni ha fatto pensare ai mostri sacri della commedia di un'epoca lontana.
«Quella generazione tanto mitizzata di attori e registi non era poi così generosa. È rimasta sterile. Non ha prodotto eredi. Molti di loro, pur di non lasciare passare nessun altro, dietro e davanti alla macchina da presa sono morti».

Ha mai litigato con un regista?
«Litigato, litigato, con pochissimi. Non sempre è stata una passeggiata».

Con Moretti esordì in Palombella Rossa.
«Era la storia di un ragazzino geniale che di notte sognava di voler vincere una finale di pallanuoto. Era il sogno di un bambino complicato, come è complicato lui. Una vera e propria sceneggiatura non c'era. Nanni arrivava con i foglietti, mi suggeriva le battute da recitare la mattina stessa. Era il mio primo grande film e mi sembrava normale, solo dopo ho capito che non era normale per niente e che quella libertà di considerare la pellicola come un foglio di carta su cui prendere appunti per poi stracciarli, era un lusso che potevano permettersi lui e pochissimi altri al mondo».

Chi è stato Moretti per il nostro cinema?
«Una di quelle presenze che oggi ti fanno dire Aridatece Nanni Moretti. Quando non c'è, ci manca perché è un testimone dei tempi che passano e di come passano. Che cosa pensa Moretti di Renzi? Lo vorremmo sapere».

Essere amici di Moretti è impossibile?
«Non lo so, per me sì. C'è un grande affetto, però c'è anche pudore. Con lui non sai mai cosa dirti o cosa non dirti. Esiste anche una sorta di imbarazzo che non ho mai superato. Per me lui è sempre Nanni Moretti e non sarà mai Nanni. Insomma, non ci andiamo a fare una pizza. In un'occasione mi sarebbe piaciuto che lui non mi avesse detto una cosa in maniera un po' violenta. Non ne abbiamo mai riparlato. È rimasta in sospeso».

Cosa sembra l'Italia a Silvio Orlando?
«Un posto in cui le ribellioni sono difficili. Puoi fare quattro giornate di rivoluzione, ma poi alla quinta devi andare al mare».
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