Si alza il vento, e il grande Miyazaki dice addio al cinema

Si alza il vento, e il grande Miyazaki dice addio al cinema
di Fabio Ferzetti
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Venerdì 12 Settembre 2014, 20:08 - Ultimo aggiornamento: 13 Settembre, 23:48
A un anno dalla prima mondiale a Venezia arriva in sala l'ultimo film del grande Hayao MIyazaki. Si chiama "Si alza il vento" e resta in sala solo 4 giorni, da sabato 13 a martedì 16 settembre. Con questo titolo, come ha annunciato ufficialmente, Miyazaki dà anche l'addio al cinema. E anche se probabilmente non è il suo miglior lavoro, è come si dice un film da non perdere.



Il canto del cigno dell’autore di capolavori come La principessa Mononoke o Il mio vicino Totoro, è infatti una summa di tutte le sue ossessioni con qualcosa di più e qualcosa di meno. A Venezia, dove non venne di persona, il grande animatore giapponese fece sapere di aver scelto il Lido «perché è una delle isole che più amo al mondo».



Non era retorica: chi ha visto Porco rosso sa che l’Italia, in particolare l’Adriatico, e la storia dell’aviazione italiana, sono nel cuore del geniale fondatore dello Studio Ghibli, figlio di un ingegnere aeronautico che fece fortuna durante la Seconda guerra mondiale. Come ci ricorda proprio Si alza il vento, che spinge la sua passione per il volo in una direzione nuova. Romanzesca (e autobiografica) più che fiabesca, anche se la Storia con la maiuscola resta sullo sfondo. Come se prima di lasciare il timone Miyazaki volesse passare dal sogno alla realtà. O quasi. E in questo quasi si gioca tutta la scommessa di questo film grandioso e imperfetto, incerto e commovente.



L’apertura è memorabile. Un bambino addormentato in una casa tradizionale giapponese respira piano sotto il kimono. È Jiro Horikoshi (personaggio realmente esistito). Da grande farà l’ingegnere aeronautico, ma per ora sogna. Così eccolo sul tetto, dove trova un magnifico aereo con le ali piumate che decolla spinto da uno strano motore dal rumore ovattato (tutti gli effetti sonori, aerei, treni, incendi, terremoti, sono fatti con la voce umana, trovata azzardata e incantevole).

Mentre veleggia fra le nuvole, però, Jiro ha una visione terribile. Un immenso dirigibile carico di bombe mormoranti oscura il cielo, scarica i suoi ordigni, lo fa precipitare nel vuoto...



Il resto del film, che dura più di due ore, elabora questa prima scena intrecciando, a volte faticosamente, tre piste narrative diverse. La prima (la più felice non caso) sono proprio i sogni, nei quali Jiro anche da grande continua a incontrare l’ingegner Caproni, altra figura storica, pioniere dell’aeronautica italiana anni 30, e a prefigurare con lui bellissimi velivoli futuribili. Anche se Caproni non si stanca di ripetere che gli aerei sono sogni maledetti, destinati a seminare morte (scarsi i riferimenti ulteriori a politica, guerra, dittature e altre sgradevolezze: infatti in patria Miyazaki si è visto accusare perfino di rinverdire l’antico militarismo nipponico).



Da Tokyo a Berlino La seconda pista segue il lavoro di Jiro, che progetterà velivoli sempre più perfezionati, per la gioia dei militari (poco più che comparse) oltre che degli ingegneri. È un lato che può ricordare "I ragazzi di via Panisperna", il glorioso film di Gianni Amelio sul gruppo di giovani fisici italiani, tra cui Fermi e Majorana, che nell’Italia anni 30 aprirono la strada alla fissione del’atomo, altro lavoro molto personale dietro la cornice storica. Ma Miyazaki accenna questa pista senza svilupparla. Non manca invece un viaggio in Germania per sbirciare gli aerei del Terzo Reich (invisibile, forse a evitare ovvi imbarazzi, in compenso c’è una scena tutta ombre in omaggio al cinema espressionista tedesco).



Mentre in parallelo, fra il terremoto che distrusse Tokio nel 1923, la Grande Depressione, l’epidemia di Tbc e poi, lontanissima, la Seconda guerra mondiale, si dipana il romantico amore fra l’infaticabile Jiro e la tenera pittrice Nahoko, che combatte contro la tbc in sanatorio (altre citazioni, stavolta da La montagna incantata di Mann).



Il tutto però non genera una favola immaginifica e coerente ma un film forse inevitabilmente ibrido, pieno di magnifici dettagli e insieme sovraccarico di spunti, che ricorda i prototipi sognati e a volte costruiti da Jiro e da Caproni. Immensi, fastosi, affascinanti, pieni di ali come le vele dei velieri di una volta, ma incapaci di librarsi in volo. Un vero paradosso per il creatore di capolavori densi come antichi miti e insieme leggeri come l’aria. La storia del ’900 è una brutta bestia. Forse conveniva tenersi a distanza di sicurezza. O forse siamo noi a non avere la mente abbastanza sgombra per guardare al film come a una fiaba.

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