Sergio Leone, quell’invito da Sharon Tate la sera del massacro: ma il regista si addormentò

Sergio Leone, quell’invito da Sharon Tate la sera del massacro: ma il regista si addormentò
di Marco Ciriello
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Sabato 27 Aprile 2019, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 16:19

Andò a letto presto come Noodles, e non inciampò – come Dominik – nella violenza che investì Sharon Tate e i suoi amici. Era l’agosto del 1969 e Sergio Leone, con lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, cercava a Los Angeles i costumi per Giù la testa, poi uscito nel 1971. Un po’ si lavorava, un po’ si vedeva gente, e tra un attore e un cocktail arrivò l’invito per un dopocena a casa di Sharon Tate: la sera del 9 agosto. Vincenzoni lì conosceva un mucchio di gente, era amico di Billy Wilder, soprattutto, Ava Gardner, Ilya Lopert, e di Jack Beckett – che dirigeva la Transamerica Corporation, proprietaria della United Artists – e quando seppe di Leone lo invitò a casa sua a San Francisco. Un invito che non si poteva rifiutare. Vincenzoni parte, Leone resta. L’aeroplano si alza, lo sceneggiatore vola verso il magnate, il regista vaga per Hollywood. Arriva la sera, e con la sera il massacro. Muore Sharon Tate, attrice e moglie di Roman Polanski – che, in ritardo, arriverà il giorno dopo – a sole due settimane dal parto. Con lei vengono uccisi dalla Charles Manson’s Family: Jay Sebring, Wojciech Frykowski e Abigail Folger, e Steven Parent. Il giorno dopo ne parla tutta l’America, Vincenzoni vede la notizia e pensa: «Oddio, è morto Sergio».

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QUEL TELEFONO
Impossibile non veder apparire il telefono che squilla ossessivamente in C’era una volta in America – ma anni dopo, uscirà nel 1984 – e che rimbomba nelle orecchie di Noodles/De Niro nella fumeria d’oppio, è il tormento per il suo tradimento verso l’amico Max/James Woods, che a sua volta l’ha tradito. In pratica è quello che pensa Vincenzoni aspettando che Leone risponda. Lo sceneggiatore sente la colpa di averlo lasciato da solo a Los Angeles, il peso di essere partito o di non esserselo tirato dietro. Ma il regista l’ha tradito, non è andato alla festa, si è addormentato. È vivo. Alza la cornetta, risponde al telefono, e racconta: «Nun parlo bene inglese, da solo senza te nun m’annava, faceva pure callo, me so messo a dormì». Solo Carlo Verdone potrebbe far rivivere questa conversazione imitando i due, l’esuberanza di uno e l’indolenza dell’altro. Lo salvò la pigrizia, anche se Leone era convinto che a salvarlo fosse stato Vincenzoni, andandosene. Non avremmo avuto Giù la testa e C’era una volta in America il film della vita, al quale già pensava. Ed è curioso che il più leonesco dei registi, Quentin Tarantino, cinquant’anni dopo quella tragedia esca con un film – Once Upon a Time in Hollywood (“C’era una volta a Hollywood”, un rimando a Leone) – che racconta proprio l’estate del 1969 a Los Angeles, e anche la morte di Sharon Tate (interpretata da Margot Robbie). Il cinema è l’unica opposizione alla morte, ricrea il tempo perduto, ci gioca, proprio come il tempo gioca con gli uomini.

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