Saverio Costanzo: è l'ideologia il vero nemico. E oggi si nasconde fin dentro al nostro corpo

Saverio Costanzo: è l'ideologia il vero nemico. E oggi si nasconde fin dentro al nostro corpo
di Fabio Ferzetti
4 Minuti di Lettura
Venerdì 16 Gennaio 2015, 17:45 - Ultimo aggiornamento: 22:51

Un regista italiano con tre soli titoli alle spalle gira un film a New York con uno degli attori americani più quotati del momento, Vince due premi a Venezia. Poi aspetta ben quattro mesi per farlo uscire. Mentre il protagonista, Adam Driver, coppa Volpi a Venezia con la sua partner Alba Rohrwacher, finito ormai Guerre stellari - Episodio VII, si prepara a girare il nuovo film di Martin Scorsese: Silence.

Sembra una storia impossibile tanto più che il tutto, compresi i cachet dei protagonisti, è costato appena 800.000 euro. Invece è andata proprio così. Ma la notizia vera è che Hungry Hearts di Saverio Costanzo, in sala dal 15, già venduto in mezzo mondo, è anche molto bello.

Un concentrato di energia e di rigore che con un pugno di personaggi e di ambienti ci porta al cuore di molte delle ossessioni centrali di questi anni: il corpo, la salute, la natura, la libertà personale. E ciò che sta dietro questi feticci, che spesso sono alibi. Il mito della purezza. La purezza in nome di cui una giovane madre può quasi far morire di fame il figlio neonato.

Perché l’aria è fetida, la carne fa male, dei medici e delle loro macchine meglio non fidarsi. Ed ecco che quella bellissima storia d’amore sterza in una dimensione quasi horror.

Anche se Hungry Hearts, liberamente tratto dal romanzo di Marco Franzoso Il bambino indaco (Einaudi), si guarda bene dal giudicare i suoi personaggi. Come ci spiega proprio Costanzo.

Perché portare tutto a New York?

«Ci ho vissuto, la conosco bene, e non riuscivo a immaginare quella storia a Roma. Serviva una città più violenta, in cui l’opposizione tra dentro e fuori, città e intimità domestica, fosse più esplicita. Nel libro c’era Padova e lei era svizzera o tedesca. Una straniera. Qui Mina è un’italiana a New York, sola, senza legami. La nascita di quel figlio la travolge, tutto quell’amore è insopportabile, ingestibile, così si difende rifugiandosi in un’ideologia su misura».

Ideologia?

«Esatto. L’ossessione del cibo è solo uno strumento. Per essere all’altezza di quell’amore Mina si chiude in una costruzione ideale, l’ideale di una vita pura, libera da ogni possibile inquinamento. Le ideologie sono sempre figlie di un innamoramento. Di colpo sei fulminato da un’idea che ti cambia la vita, illumina la tua visione del mondo con una luce così forte che credi di essere nel giusto, di aver capito tutto. Così, anziché accettare la propria trasformazione in madre e mettersi in ascolto, Mina si barrica dentro il suo dogma. In fondo è lo stesso meccanismo che sta dietro il fanatismo dei terroristi di Parigi. L’ideologia è sempre affascinante ma sorda e cieca. Non guarda gli altri, ci impedisce di capire».

A proposito di ideologia, Hungry Hearts ha già fatto il giro del mondo nei festival. E non è un film facilissimo. È stato accolto diversamente in culture diverse?

«No, direi che la vera differenza è fra spettatori e spettatrici. Gli uomini purtroppo tendono a vedere Mina solo come un nemico, un’incognita. Le donne sono più aperte alla complessità di questo personaggio così estremo, anche se spesso si sentono prese di mira»

Niente accuse di misoginia?

«Quelle sono scontate in partenza. Direi quasi che sono motivo d’orgoglio. Appena esci dal conformismo e racconti personaggi che appartengono alla vita, non alla drammaturgia, subito fiocca quest’accusa idiota. Tanto che i più grandi registi di donne, da Bergman a Lars Von Trier e Polanski, si sono visti puntualmente accusare di misoginia. Come se voler capire significasse giudicare. Per fortuna c’è un vasto pubblico che cerca una rappresentazione più complessa della verità, anche se dolorosa. Proprio per questo il film alterna con molta attenzione i due punti di vista, di lui e di lei».

C’è anche una pista “magica”, con quel sogno premonitore, che il film si guarda bene dallo smentire...

«Certamente, una certa “magia” esiste nella vita, ci sono persone più sensibili di altre, Mina ha delle doti misteriose, vede in anticipo le cose, coglie dei segni molto sottili, diciamo che il suo inconscio le parla molto, anche perché cerca continuamente delle risposte, il senso profondo di quello che accade».

Com’è stato riunire sul set Alba Rohrwacher e Adam Driver? E come avete fatto a convincerlo?

«All’inizio non aveva nemmeno il tempo di leggere la sceneggiatura, è stata la sua agente a insistere ma gli è piaciuta molto e ha voluto incontrarci. Non aveva idea di chi fossimo, ha voluto vedere i miei film, ma poi tutto è filato a meraviglia. La media degli attori è molto alta in America, ma a fare davvero la differenza sono le persone, e Adam è una persona straordinaria. Cassavetes è un mito per lui come per me, e credo che nel nostro piccolo set abbia visto la possibilità di lavorare in un modo ormai inconcepibile per una grossa produzione americana».

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