Rocco Papaleo: «Ho un'ambizione: essere applaudito, ma da cantautore»

Rocco Papaleo: «Ho un'ambizione: essere applaudito, ma da cantautore»
di Alvaro Moretti
5 Minuti di Lettura
Lunedì 23 Aprile 2018, 08:25 - Ultimo aggiornamento: 5 Maggio, 12:04
L'impressione è che Rocco Papaleo, in questa passeggiata di domande e risposte, non abbia nascosto molto. Nonostante il titolo l'ultimo film, Tu mi nascondi qualcosa, che esce nelle sale il 25 aprile con la regia di Giuseppe Loconsole, dopo Bob&Marys e The Place. Ci ha concesso momenti intimi, parlando di famiglia, terra natìa, sogni - pur provando a giustificarsi per essere un tipo poco ambizioso - e di un desiderio nascosto. Che alla fine nascosto non sarà. Insomma: alla domanda, Tu mi nascondi qualcosa, la risposta più sincera è nella suoneria del telefono.



Papaleo, che ci nasconde?
«Che ho cominciato l'intervista con la suoneria del cellulare alta».

Che altro film ci nasconde, visto che ne escono in serie...
«Fatemi giustificare, per questo - dice con la testa che ondeggia a cercare la battuta giusta, Rocco fa così -. Il cinema a volte diventa un imbuto stretto: giri due film a distanza di sei mesi ed escono a distanza di quindici giorni».

Con Sarah Felberbaum, Giuseppe Battiston, Rocio Morales, Ninni Bruschetta giocate con verità e bugie.
«Un film a episodi, questo. Non se ne fanno più molti: io mi ritrovo smemorato con due mogli: la Rocìo e Olga Rossi. Roba da film di fantascienza: io sposato con una come Rocìo... Più credibile un matrimonio tra lei e uno di Star Trek. Un film, questo, che però sdogana».

Sdogana cosa?
«I film porno, ad esempio, e io ne guardo tanti (torna a muovere la testa alla Papaleo, ndr), non voglio deludere nessuno. Perché nel cinema c'è anche questo. Ha una sua dignità la cosa».

Proponiamo una scorribanda nel drammatico ruolo in The Place: nemmeno una risata cercata.
«Cerco la discontinuità sempre, come metodo: faccio cinema e teatro, la musica quando posso, e poi ancora cinema. Per sfuggire la noia, certo, ma anche per una ragione più profonda: in The Place c'era a disposizione una sfaccettatura, un giro di volta. Ma non ho pensato, non penso mai: ecco la svolta della mia carriera. Anzi: non penso mai alla carriera, quella con la maiuscola. Io vivo da estemporaneo, non per snobismo: sono così perché è il modo migliore per sfuggire il Giudizio Definitivo. È una scusa. Quel giudizio definitivo che sfuggo, lo sfuggo con onestà: è come se chiedessi sempre di avere due minuti di recupero in più all'arbitro per provare a segnare un'altra rete, che non so mai se sarà decisiva».

Ma Papaleo la vive così, la vita, scartando sempre di lato?
«Vivo in un candore un po' sporco, ma che sempre candore è. Non è che riparto da zero, ma da tre: come Troisi, sì. Era geniale quella voglia di ripartire senza azzerare, ripartendo da tre. Il passato incombe come una dote, un corredo».

Quello che le mamme preparano ai figli prima del distacco dalla famiglia, specie nel suo Sud.
«Corredo è una parola che mi emoziona: mia mamma è morta da pochi giorni, non ha avuto il tempo di mostrarmi quella cassapanca piena di lenzuola e tovaglie che si lascia in eredità. Ma so che quando avrò la forza di tornare a casa sua, aprirò quel baule e quegli oggetti me la faranno sentire vicina ancora. Anche se adesso usiamo le lenzuola senza angoli, le userò».

La Basilicata: da costa a costa per film, ma anche qualche amarezza.
«So che quel film è diventato un'icona, la gente mi ringrazia: io spiego che l'ho fatto non per la Lucania, ma per me. Ho avuto più io dall'essere lucano, che viceversa. Anche se a volte sono stato criticato per aver fatto scelte fraintese per uno spot».

In quel film la musica era il pretesto. Ma la musica è molto nella sua vita.
«Vivo come in un jazz-blues in minore: uno swing malinconico. Quando frequentavo il Locale vicino a Piazza Navona, un posto di eccezionale trasversalità, con Edoardo Leo, Favino e Niccolò Fabi e tanti altri di me, persino Dalla, e del mio gruppo dissero che sembravamo l'orchestra degli Aristogatti. Io musicalmente non sono legato ad un genere, ma quel paragone mi piaceva».

Sanremo fatto da conduttore e tentato da musicista.
«Nel mio paesino c'erano poche tv quando ero ragazzo, una volta la tv era quella della mia famiglia. E Sanremo era un rito collettivo che amavamo tutti. L'ho affrontata seriamente, la cosa, da musicista: mi ero candidato come autore un anno prima della conduzione. E sul palco dell'Ariston ci stavo come musicista , come quando faccio gli spettacoli in teatro. Con rispetto e divertimento, per questo ero credibile, nonostante il mio aplomb».

L'Italia vista da Lauria: si traguarda prima Napoli o Roma, la città che l'ha accolta. O addirittura la lontanissima Milano?
«Napoli era l'upgrade di Potenza: quando avevi un problema sanitario, dopo l'ospedale di Potenza c'erano i professoroni di Napoli. Roma, l'università, è stata l'esplosione del me. Non era una cosa contenibile per me, ragazzo di Lauria: all'inizio non ci ho capito niente. Dal ghetto, così si chiama, degli studenti di Piazza Bologna a Fidene, poi soprattutto Roma Sud. Ostiense, piena di locali, ma il mio epicentro direi che è San Giovani. Anche se adesso abito a Monteverde».

Un upgrade alla Moretti, Nanni.
«Magari mi verrà qualche idea, da regista».

Papaleo, lei, ci ha nascosto qualcosa: lo sogna un grande ruolo drammatico, da comico qual è, in un film d'autore?
«Non sono una persona ambiziosa, io sono contento e soddisfatto davvero. È un desiderio piacevole, non una malattia. E non lo dico per sfuggire ancora».

Ma neanche un ambizione da confessare, Rocco?
«Ambizione è avere una pienezza nell'ambito musicale, lì sento che c'è un nervo scoperto. Che non mi considerano quanto credo di valere come cantautore. Manca più l'attenzione dell'orecchio che dell'occhio del pubblico e della critica».

Se posso usare il tu, proprio alla fine ci provo: tu, Rocco, mi nascondi qualcos'altro?
«No, giuro».
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA