Party Girl, la vita spericolata della mamma entraîneuse

La protagonista di Party Girl con due dei suoi figli, tra cui il regista
di Fabio Ferzetti
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Mercoledì 24 Settembre 2014, 16:47 - Ultimo aggiornamento: 16:48
Una bella donna ormai sui sessanta, una vita passata a fare l’entraneuse nei cabaret, si sente chiedere in moglie da un vecchio “cliente” che aveva perso di vista. Un coetaneo in pensione di nome Michel, originario come lei della Mosella, al confine tra Francia e Germania. Un macho dagli occhi dolci, ex-minatore e campione di tiro, che ne aveva abbastanza «di ordinare champagne per poter stare con lei» e ora la vorrebbe tutta per sé, tutti i giorni, in ogni momento.



Una proposta onesta quanto sbalorditiva per la fiera Angélique, che non dice di no ma è piena di dubbi e comincia a parlarne con tutto il suo entourage. Ne parla con le colleghe, che continua a frequentare e da cui teme di non potersi separare, perché non è mai facile cambiare vita, soprattutto per chi in fondo ama la vita che fa, anche se ormai con la lap dance e le stanze al piano di sopra il cabaret sembra aver perso il suo fascino romantico.



Ne parla anche con i figli, perché Angélique ha due figli ormai adulti, Mario e Sévérine, più un’altra che le è stata tolta e data in affidamento in un’altra città, una ferita mai rimarginata. Poi c’è un quarto figlio che sta a Parigi, Samuel detto Sam, il suo preferito. Nonché, attenzione, uno dei tre registi di questo strano docu-fiction, ibrido e provocatorio ma non sempre convincente, anche se a Cannes gli hanno dato addirittura la caméra d’or.



Con tutto il parlare che se ne fa, anche la nuova primavera del documentario, nelle sue varie declinazioni, rischia infatti di diventare solo una moda. E la “realtà” di ciò che si agita sullo schermo un effetto di stile, una (ambigua) patina di verità che assicura qualche brivido in più ma non sempre con la chiarezza e il rispetto che meritano storie e personaggi messi in scena. Perché non c’è documentario che non contenga elementi di finzione, e Party Girl è palesemente anche una fiction. Anche se tutti nel film recitano se stessi, almeno fino a un certo punto. Tutti, guardacaso, tranne il maturo spasimante deciso a imporre il classico happy end alla vita dissipata di Angélique...



Ma un vero documentario non è la vita dal buco della serratura, né un docu-drama realizzato con la complicità dei personaggi reali, più o meno consapevoli di ciò che stanno facendo (qui il sospetto che il figlio regista manipoli la mamma entraîneuse si affaccia più volte). Un documentario di creazione trasfigura storie, ambienti, paesaggi geografici e umani estraendone una realtà più densa, più necessaria, in certo modo più vera del vero. Come accadeva ad esempio con Le cose belle di Piperno e Ferrente, o La bocca del lupo di Pietro Marcello, altra storia d’amore fuori schema che diventava elegia per un’epoca e una città (Genova) scomparse.



Nelle interviste i registi citano precedenti diversissimi come il primo Pialat, il Pasolini di Mamma Roma e naturalmente Cassavetes per L’assassinio di un allibratore cinese. Ma Party Girl non illumina davvero un mondo né i suoi protagonisti, e a forza di restare indeciso, irrisolto, finisce per poggiare tutto, in modo un poco parassitario, sulle spalle già sovraccariche della povera Angélique.





PARTY GIRL

Docu-fiction, Francia, 95'

di Marie Amachoukeli, Claire Burger, Samuel Theis, con Angélique Litzenburger, Joseph Bour, Mario Theis, Sévérine e Cynthia Litzenburger

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