Paolo Villaggio racconta il suo «crepuscolo»: «Il cinema? Mi manca ma sto bene»

Paolo Villaggio racconta il suo «crepuscolo»: «Il cinema? Mi manca ma sto bene»
di Malcom Pagani
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Venerdì 31 Marzo 2017, 00:26 - Ultimo aggiornamento: 3 Luglio, 18:45

Elisabetta Villaggio, erede del ragioniere più noto d’Italia, scrive sulla sua bacheca virtuale un messaggio accorato: «Non starà al meglio, certo, ma il cinema italiano lo ha abbandonato, invece mio padre c’è» e in pochi minuti, sui social network, le reazioni tradiscono un affetto e una preoccupazione concretissimi.
 

 


Un allarme che a dar retta al timbro tranquillo della ex matricola/bis, Paolo Villaggio non condivide: «Sono appena tornato da una passeggiata, cosa ha detto esattamente mia figlia?». A 84 anni, Villaggio non usa Facebook, ma da decenni conosce il trucco per essere il più moderno di tutti.

«Non starete mica preparando un coccodrillo, vero?». Nella sua casa a nord di Roma, affacciata sulla chiesa in cui Aldo Moro andava a sentir messa tutti i giorni, non tira aria di estrema unzione. «Mia figlia si è lamentata perché il cinema non mi fa più lavorare? Lei mi vuole bene e in parte è vero, ma in fondo non c’è niente di anormale». 

Perché dice così? 
«Ho la mia età, i miei acciacchi, il mio passato, ma sto bene se questo serve a rassicurare qualcuno».

Torna a farle visita spesso il suo passato?
«Spessissimo perché a 84 anni si vive anche di ricordi. Sono belli i ricordi, sono letterari». 

Ai tempi in cui il suo Fantozzi vendeva milioni di copie, Evtushenko si spese in un pubblico peana.
«Eravamo in un seriosissimo consesso di intellettuali a Venezia. Facce truci, altere. Gli domandarono chi fosse lo scrittore italiano che apprezzava di più e lui rispose che le mie pagine gli ricordavano Cechov e Gogol». 

Sono soddisfazioni. 
«Vantarsi e gloriarsi sono attività tra le più stupide, tra l’altro il grande poeta russo mi storpiò il nome in Vigliacchio». 

Ma il cinema le manca? 
«Come fa a non mancarmi? Ho esordito quasi cinquant’anni fa. Mi manca ovviamente moltissimo. Se non si offende nessuno, è come vivere senza braccia».
 
Ma pensa sia ingiusto che non la chiamino più a recitare? 
«Non lo penso e non ho nessuna voglia di lamentarmi. È così noioso, il lamento. Così deprimente. Così inutile. La vita ha i suoi tempi e così anche il cinema».

L’età anagrafica è una fregatura? 
«Può giurarci, può scommetterci». 

E la vecchiaia? 
«È un crepuscolo. Un tramonto. Una luce che si rabbuia all’improvviso».
 
Le dispiace? 
«Non brindo. Mi salva l’ironia. Mi salva la ferocia. Mi salva il cinismo. Doti che mi aiutavano ai tempi in cui lavoravo sulle navi da crociera con De André e che mi salvano ancora oggi».
 
Cosa facevate sulle navi da crociera con De André?
«Intrattenevamo il pubblico. Fabrizio attaccava con le prime note de Il Testamento e davanti a una platea formata principalmente da anziani, ci accorgevamo che quei vecchi non erano ancora morti». 

Da cosa ve ne accorgevate? 
«Dal fatto che avevano i riflessi pronti. Alle prime parole di Fabrizio, ai primi versi, tutti si toccavano vigorosamente le palle». 

A lei che ruolo in commedia toccava? 
«Un po’ quello che poi interpretai in Fantozzi. Mi chiamavano “le petit connard”, il piccolo coglione, ma detto dolcemente, senza acrimonia. 

Lei al cinema è stato grande. 
«Ho fatto un cameo, qualche mese fa, c’era anche Iva Zanicchi. È stata anche l’ultima cosa che ho fatto».
 
Ce ne sarà una prossima? Orson Welles lavorò anche da vecchio.
«E chi lo sa? Non credo. Non sono Welles e comunque per certi ruoli in Italia l’invenzione langue». 

E cos’altro manca? 
«Così tante cose che dovremmo passare qui un paio d’ore». 

Non mancherà occasione. 
«Non sono ancora morto». 

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