Moretti e il nuovo cinema: «Sono pronto a girare una serie tv»

Nanni Moretti
di Ilaria Ravarino
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Martedì 26 Luglio 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 1 Agosto, 19:24
BRESLAVIA (Polonia) - Il selfie non ha il coraggio di chiederglielo nessuno. In molti, però, provano a portarsi a casa almeno una foto classica, braccio sulle spalle del maestro e segno della vittoria con le dita. Nanni Moretti, leggermente imbarazzato ma domo, lascia fare. I ragazzi che lo chiamano e lo fotografano per strada, tra i bei palazzi del centro di Breslavia, hanno visto per la prima volta la sua intera opera di regista, presentata al T-Mobile New Horizons International Film Festival. È la generazione nata nella Breslavia anticomunista di Alternativa Arancione e cresciuta nella Polonia del dopo Wojtyla: il Nanni Moretti di Habemus Papam e Palombella Rossa, per questi studenti con lo smartphone in mano, è un incrocio tra un’icona del cinema e un marziano. Più cauti i giornalisti ammessi alle interviste nel prestigioso hotel della città, che fu il favorito di Marlene Dietrich: «Non parlo di politica - li ammonisce subito Moretti - proprio non mi va». Poi, però, uno strappo alla regola lo fa.

La Francia, il Belgio, ora la Germania. In tempi di terrorismo il cinema può immaginare un mondo migliore?
«Non lo so. C’è sempre il rischio di fare film schiacciati in maniera poco inventiva sulla realtà. Avrei la curiosità impossibile, come spettatore, di vedere che tipo di film farebbero su questo tema registi come Abbas Kiarostami e Krzysztof Kieślowski, entrambi morti. Sono registi cui sono molto legato, li ho conosciuti e mi interesserebbe il loro sguardo sulla realtà di oggi: vorrei sapere come, senza parlarne direttamente, avrebbero potuto raccontare questi anni di paura e sgomento».

Lei partecipò ai “girotondi”, un movimento precursore del ritorno dei cittadini alla politica attiva. Succedeva nel 2002, prima dei 5 Stelle. Si sente in qualche modo responsabile?
«Ho un rapporto intermittente con la politica. Nel 2002 mi faceva piacere prestare la mia faccia per difendere principi nei quali credevo, non da regista ma da cittadino. E la cosa che trovo ancora positiva di quel movimento, ormai lontano, era che da una parte criticava la destra, allora al potere, ma contemporaneamente criticava l’opposizione incerta e confusa della sinistra. È una cosa di cui noi tutti eravamo convinti e anche, perché no, orgogliosi. Ma non so se si possa stabilire un rapporto tra quel movimento e quelli nati dopo. Possiamo parlare d’altro?».
 
Ha detto che nel pubblico del suo cinema, il Nuovo Sacher, non vede ricambio generazionale. Perché?
«Quando ho aperto il Nuovo Sacher, 25 anni fa, paradossalmente il cinema era un luogo respingente per il pubblico. Ora non è più così, ma allora uno dei motivi che mi spinse a fare quel passo fu che volevo fare un cinema per le persone. E poi volevo programmare film che avrei voluto vedere io stesso. Ora la situazione è migliorata, e soprattutto per il cinema d’autore ci sono più spazi. Aprii la mia sala con Riff Raff di Ken Loach in esclusiva. Ora un Ken Loach, quando esce, lo fanno almeno in dieci sale. Quello dei giovani è un dato di fatto oggettivo. Se i ragazzi vanno al cinema, ci vanno per vedere altri tipi di film in altri tipi di sale. Non presuppone una critica, ne prendo atto. Naturalmente non mi fa piacere».

Lei ha quattro profili Facebook, tre su Twitter, uno su Instagram. Tutti falsi. Come vive la rivoluzione tecnologica?
«Mi sono immedesimato molto, purtroppo, in una scena dell’ultimo film di Ken Loach (Io, Daniel Blake, ndr), perché con i computer sono incapace quanto il protagonista. Non so che cosa scrivano su Facebook e Twitter quei finti me. Quel che mi imbarazza e mi stupisce è che magari ci sia qualcuno che crede veramente di comunicare con me in quel modo. Ma temo di non poterci fare nulla. È una cosa seccante».

Quarant’anni fa cominciò con il Super 8. Oggi userebbe uno smartphone?
«Probabilmente sì. Devo però dire che queste nuove possibilità offerte dalla tecnologia hanno un aspetto positivo e uno negativo. Ovvero: oggi tutti possono fare un film. Spesso chi esordisce con mezzi così leggeri rispetto alla vecchia e pesante, letteralmente e simbolicamente, macchina da presa, non fa alcuna riflessione sul mezzo che sta usando. La leggerezza dei mezzi digitali offre l’impressione, a chi esordisce in maniera così facile e disinvolta, che fare un film sia facile, sia qualcosa su cui non è necessario riflettere. Bene che oggi, con quei mezzi, si facciano tanti film in più. Male che si possano fare così tanti film brutti in più».

I ragazzi oggi amano molto le serie tv. Lei le guarda?
«Poche. Ho visto tutte quelle italiane, qualcuna di quelle straniere: la prima stagione di In Treatment, la prima di True Detective e quest’anno quella serie di Susanne Bier, The Night Manager. Che però, insomma...».

E come regista? Le piacerebbe girarne una?
«Sì. Solo che, da quello che mi dicono i registi che lo hanno fatto, le serie hanno ritmi che non sono miei, molto frenetici. Il montatore monta mentre il regista gira, il regista deve girare con poche settimane a disposizione. Mi spaventano i tempi serrati, però non escludo assolutamente la possibilità di farlo. Sia come regista, che come attore».

Ha detto che il cinema per lei non è terapia. Ma con La stanza del figlio e Mia madre ha messo le mani in un dolore indicibile. Si è mai portato a casa, dal set, quella sofferenza?
«In certi film come in Caro Diario, quando ho ricostruito il periodo della mia malattia, la tac e le conversazioni con i medici, non ero emotivamente coinvolto. Cioè, non ero angosciato dal fatto di rivivere la malattia: ero solo un regista che decideva inquadrature e recitazione, alle prese con il suo lavoro. Con La stanza del figlio è stato diverso. Mi è capitato spesso, la sera, di rimanere impregnato di quel dolore che stavo raccontando».

A suo figlio Pietro l’ha mai fatto vedere?
«Io sicuramente no. Devo dire la verità: non lo so, se l’ha mai visto».
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