Belardi, produttore di "Perfetti sconosciuti": «Le mie Notti Magiche inseguendo un film»

Belardi, produttore di "Perfetti sconosciuti": «Le mie Notti Magiche inseguendo un film»
di Alvaro Moretti
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Domenica 15 Luglio 2018, 00:13 - Ultimo aggiornamento: 3 Agosto, 18:32


Marco Belardi ha uno sguardo bambino, lo sguardo del bambino che chiedeva alla mamma: «Visto che andiamo da nonna, che abita lì, mi porti a Cinecittà». E la sua storia di enfant prodige del cinema italiano, produttore di grandi successi come Perfetti Sconosciuti o Immaturi, The Place, A casa tutti bene, La Pazza Gioia o di interessanti scommesse come Hotel Gagarin sembra proprio scritta da quelli alla Frank Capra: una vita da cinema e di cinema. «Anche a me non sembra vero, io – davvero – portavo i caffè sul set, davvero. Era uno spot, anche se dei fratelli Taviani. Acchiappavo i gatti che servivano ad una scena di un film negli studios.
 



E a Cinecittà sono entrato costringendo mia madre a portare le mie foto da bambino una notte e lasciandole al vigilante. Mi presero per uno spot di cracker, la protagonista era Moana Pozzi. Ma io mica lo sapevo chi era. Poi pargolo di Mario Brega, su un altro set: Mario poteva esse’ fero o esse’ piuma. Con me fu piuma, come dice nel film di Verdone: io i personaggi di Carlo li so imitare tutti, facendo il documentario su Verdone mi sono regalato un po’ di mito. Anche se una parte fondamentale ce l’ha Enzo De Caro, in questa storia».
 
De Caro?
«Avevo appena cominciato a produrre, coi soldi fatti girando filmini ai matrimoni, mi trovai con uno scoperto di 10 milioni in banca: lo seppe Enzo De Caro, con cui stavo girando dei documentari. Rientro in ufficio e mi trovo un assegno di 10 milioni. Un gesto che non dimenticherò mai».

Le superiori all’Istituto per il cinema Rossellini. 
«Non avrei accettato di fare altro. Montatore, la mia specializzazione. E a 10 anni la prima volta lì, dentro: l’impressione enorme di vedere le comparse vestite da antichi romani e cowboy. Sono passati 35 anni: direi che ci sono riuscito a farlo, il cinema».

Che è in crisi… Si dice sempre così.
«E invece no: se scegliamo la storia giusta, noi produttori, possiamo farla muovere la gente per andare al cinema. Con Perfetti Sconosciuti ci siamo riusciti, con Muccino pure. Quando leggi certe storie, lo capisci. Poi puoi sbagliare: con Ti ricordi di me? una commedia con Edoardo Leo e Ambra ero convinto di fare cassetta, andò diversamente. La verità è che si deve pensare un cinema internazionale, storie che possano funzionare ovunque. Vengo da Shangai e in Cina siamo il quarto incasso con Perfetti in italiano sottotitolato. Ma provo anche a sperimentare: lavoro ad un musical internazionale, nato da un corto di un giovane. E scommetto su Cosimo Gomez, dopo Brutti e Cattivi».

La scommessa è tra cinema e tv, tra film e serialità.
«Ora siamo su Sky con Maccio Capatonda e il suo The Generi: la sua comicità non la capiscono tutti. Di certo le serie hanno cambiato il modo di scrivere il cinema e – credo – finiscano per condizionare anche il modo di pensare il cinema per grandi cineasti che si sono cimentati. Ci sono passato con la serie di Immaturi, stiamo lavorando con Tutti colpa di Freud. E vedrete il western Colt, da un’idea di Sergio Leone, o il film sui Beati Paoli, sulle origini della mafia, ci fu un originale televisivo negli anni Settanta, ve lo ricordate?».

Troppi debutti nel cinema italiano, chiediamo così a bruciapelo?
«Dipende. Se investi nel cinema di genere e cambi genere, no».

Ma è vero che stava per non farlo, “Perfetti Sconosciuti”?
«Paolo Genovese mi presenta questo progetto: era forte, ma tutto in una casa avevamo fatto già Una famiglia perfetta. Poi, però, leggi storia e sceneggiatura e capisci che funzionerà. E comunque, sette primi attori così bravi come quelli intorno ad un tavolo non erano mai stati messi».

Ma c’è un metodo Belardi per… sentire il blockbuster?
«Io faccio tante proiezioni prima dell’uscita: per Immaturi girammo i campeggi di tutt’Italia e capimmo che il film sarebbe andato forte. A volte però si sbaglia anche così».

Netflix e i suoi fratelli. 
«Ho prodotto il primo film uscito in esclusiva su Netflix, Rimetti a noi i nostri debiti. Loro vogliono scelte più forti, estreme: sono una grande chance. Esci in 120 paesi del mondo: internazionalizzare è la parola chiave».

Con Lotus, Genovese, Muccino state creando un percorso di cinema importante ottimo per un gruppo di attori che emergono con voi: Favino e Leo, Mastandrea e la Foglietta, Papaleo e Giallini e la Smutniak.
«È una nuova generazione che può ricordare quella degli anni Sessanta. C’è coralità e amicizia: uomini della tv e del teatro o cinema».

Capricci e coccole.
«Tutti pretendono attenzione. Giallini è un cavallo scosso, ma si fa amare pure per entusiasmo. Anna (Foglietta, ndr) sa tenere l’ordine sui set più disordinati e quelli di Perfetti lo era. Sul set di Muccino ho molto apprezzato Favino: Picchio stava scegliendo se andare a Sanremo. Lo abbiamo spronato tutti: l’avete scoperto tutti nella sua intera dimensione». 

Da produttore come ha vissuto il ciclone Me Too, che proprio un grande produttore come Weinstein ha travolto?
«È una storia molto brutta. Ci sono stati abusi gravi, anche nel colpire il passato di certi artisti. È un fenomeno che deve scomparire. In casa mia moglie vedeva i servizi delle “Iene” e mi diceva: “Marco, non è che hai fatto qualcosa di sbagliato?” In certi casi fai anche fatica a spiegare che non hai mai fatto niente… È stato un momento da maccartismo, mi ha fatto paura una cosa così. Per fortuna quando faccio incontri e provini, da sempre, pretendo che la mia assistente sia presente».

Tanti David e Nastri, ma uno spazio per l’Oscar nella bacheca di casa Belardi c’è?
«Mai pensato a questo, davvero. Anche se la bacheca dei premi c’è». 

La prossima avventura, un nuovo Virzì: hai visto mai? 
«Amo molto la sua poetica: quanti premi abbiamo vinto con La Pazza Gioia, Notti Magiche che presenteremo in anteprima alla festa di Roma vi emozionerà con una bella storia di giovani che sognano il cinema sulle note di quei mondiali italiani del ‘90».
Giovani cineasti, anni ’90… sembra la storia di Marco Belardi: da catbuster ai blockbuster. 

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