Cinema, chi si rivede: i magnifici 7, il remake del "cult" anni'60 non delude le attese

Cinema, chi si rivede: i magnifici 7, il remake del "cult" anni'60 non delude le attese
di Fabio Ferzetti
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Lunedì 19 Settembre 2016, 09:40 - Ultimo aggiornamento: 20 Settembre, 20:24
I magnifici sette cavalcano ancora ma hanno cambiato almeno in parte colore. Il capo, il sentenzioso Sam Chisolm (Denzel Washington), è un bounty killer afroamericano veloce con la lingua come con la pistola. Fra i suoi accoliti figurano un simpatico gaglioffo messicano (Manuel Garcia-Rulfo); un intrepido guerriero comanche (Martin Sensmeier); e un letale lanciatore di coltelli cinese (Byung-Hun Lee, in realtà coreano, ma non sottilizziamo).

Il regista Antoine Fuqua sostiene che non si tratta di moda né di ossequio ai valori del politicamente corretto, ma di rispetto della Storia. Il West era molto meno bianco di quanto non ci abbiano raccontato centinaia di western, e questo è vero. Per il regista di Training Day, a sua volta afroamericano e complice affezionato di Denzel Washington, rifare oggi I magnifici sette di John Sturges, cult datato 1960 con Yul Brinner, Steve Mc Queen, James Coburn, etc., già remake del capolavoro di Kurosawa I sette samurai, 1954, significa anche ridistribuire le carte.

A ciascuno il suo, dunque, tanto più che qui il cattivo è un luciferino self made man (Peter Sarsgaard), pronto a trucidare un innocente davanti a tutto il villaggio per far capire a quei bifolchi che devono cedergli le terre per un tozzo di pane, e a dar fuoco alla chiesa del paese - immagine inconsueta per un western - per ribadire il concetto che «Dio è dalla parte del capitalismo» e chi lo intralcia ostacola la volontà divina».

Ciliegina: la committente che mette insieme questo gruppo di giustizieri è una donna (Haley Bennett). Vedova del poveretto ucciso nel prologo, ma anche combattente capace di dare man forte a quei coloriti tagliagole uniti dalla giusta causa - e non sempre così probabili, storicamente. Possibile, per esempio, che nessuno faccia mai allusione al colore della pelle di Chisolm, a 15 anni da una guerra civile combattuta proprio per la schiavitù?
Ma non facciamo gli incontentabili. Questi Magnifici sette reloaded non vogliono riscrivere la Storia. Solo fare spettacolo senza far rimpiangere troppo l'originale, aggiornando l'insieme al gusto e alle mitologie odierni. Fin qui tutto bene. Lo script di Richard Wenk e Nic True Detective Pizzolatto è un po' episodico ma brillante (meglio i dialoghi della struttura). Fuqua non sembra subire molto il fascino dei paesaggi, ma dirige benissimo le scene d'azione - il terzo atto è dominato dallo scontro che oppone l'esercito riunito da Sarsgaard ai poveri abitanti del villaggio, addestrati alla meglio dai magnifici sette - ed è svelto e pungente anche nei momenti da commedia. Inoltre, cosa fondamentale, gli attori sono scelti benissimo e si divertono un mondo, contrariamente a quanto accade nel 90 per cento dei remake (ormai una parolaccia) oggi dilaganti.

I migliori in campo sono quelli che non abbiamo ancora citato. Il pistolero e giocatore Faraday (un gigionesco Chris Pratt). Il tiratore scelto Goodnight Robicheaux, gran bel nome, cioè Ethan Hawke, che per tornare a combattere deve superare i suoi incubi. E soprattutto il gigantesco Vincent D'Onofrio, l'indimenticabile Palla di lardo di Full Metal Jacket, uno dei migliori attori della sua generazione e dei più sfortunati, impagabile come trapper predicatore che combatte a mani nude e dispensa perle di saggezza in un falsetto roco da brivido (la somiglianza ormai clamorosa con Orson Welles completa l'emozione).

Peccato solo che Fuqua & C. trascurino un particolare fondamentale per rendere il tutto davvero emozionante e non solo divertente. Il villaggio. Il piccolo mondo di contadini, artigiani, pionieri, in nome dei quali combattono i magnifici sette. Insomma la comunità. Concetto fondamentale in un western classico, ma oggi puramente accessorio, come il residuo di un'epoca trascorsa. Può esserci un vero western senza un West da difendere? Triste segno dei tempi: in fondo ogni remake parla della sua epoca. Perfino quando non vuole.