John Turturro, Gigolò per caso

Woody Allen e John Turturro in Gigolò per caso
di Fabio Ferzetti
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Domenica 13 Aprile 2014, 17:35 - Ultimo aggiornamento: 16 Aprile, 18:30
Che cosa sono le minoranze? Le minoranze sono quelle da cui vengono i comici, i cantanti e i registi migliori. Almeno in una democrazia multietnica come gli Stati Uniti (in Italia abbiamo ancora molta strada da fare, ma se pensiamo alle nostre tradizioni dialettali e i conti tornano). Ripassare per credere la storia della cultura popolare Usa del ’900. Togliete ebrei, italiani, afroamericani eccetera, e guardate cosa resta. Ma gli esponenti delle minoranze hanno anche un altro (discutibile) privilegio. Sanno gestire i cliché, versione abbreviata di quella che qualcuno chiama identità, ribaltandoli e talvolta arricchendoli a loro vantaggio.



Ce lo ricorda Gigolò per caso (in originale

Fading Gigolò, ovvero Gigolò sbiadito, appassito, declinante), quinto film da regista di John Turturro, sempre più disinibito dopo il trascinante Passione, che di cliché stila un vero e proprio catalogo. Anche se li mescola e li usa uno contro l’altro fino a farne, appunto, qualcosa di molto diverso. Pattinando con grazia, inventiva e faccia tosta su una storia e un cast che in altre mani sarebbero un concentrato di luoghi comuni. Mentre Turturro ne fa un giocoso inno alla tolleranza e all’amore per la diversità. Anzi all’amore tout court.





Primo cliché: lo stallone italiano. Voi prendereste Turturro, con i suoi 57 anni e la sua (adorabile) faccia storta, per fare l’accompagnatore a pagamento di signore sole? Forse no. Ma il suo amico Murray, cioè Woody Allen, un libraio dell’usato sull’orlo della bancarotta, ha la vista lunga. Sa che quello spilungone silenzioso che conosce da sempre, un fioraio capace di qualsiasi lavoro manuale, per qualche ragione piace alle donne.



E poi l’offerta crea la domanda: così quando sente dire alla sua dermatologa, una bionda con attico sulla Quinta Avenue (Sharon Stone naturalmente) che vorrebbe provare qualcosa di diverso, Murray decide di lanciare l’amico Fioravante sul mercato.

A questo punto i cliché sono una folla. Dopo lo stallone italiano, per quanto riluttante, e l’affarista ebreo, c’è anche la bionda annoiata cui presto si affianca un’altra miniera di cliché: Williamsburg, la zona di Brooklyn abitata dagli hassidim, o ebrei ortodossi. Una delle comunità più impenetrabili di New York.



Ma la sfida è l’anima del commercio. E l’impertinente Murray (che ha una corpulenta moglie afroamericana di nome Othella e un’allegra nidiata di ragazzini), visti i successi del dolce Fioravante con Sharon Stone e la sua compagna di merende Sofia Vergara, decide di metterlo alla prova. Spedendolo a consolare la pia, costumatissima, sprovvedutissima vedova di un rabbino di Williamsburg, che ha gli occhi e il sorriso incantevoli di Vanessa Paradis. E naturalmente non è proprio una cliente qualsiasi...



Raccontare altro sarebbe rovinare una commedia con doppiofondo sentimentale tutta giocata sulla complicità, oltre che sulla storia professionale dei protagonisti, che a sua volta, volendo, è un cliché.



Ma se i duetti tra Woody e Turturro valgono da soli il film (da antologia la scena in cui decidono di darsi nomi di battaglia), vale la pena ricordare che Gigolò per caso non sarebbe lo stesso senza le luci di Marco Pontecorvo, il montaggio di Simona Paggi. E il finale affidato all’intramontabile Tu si’ ’na cosa grande. Cantato, con un filo di voce e un mare di grazia, proprio da Vanessa Paradis.
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