Salto che all’attrice è valso due costole rotte durante le riprese e a Bruised un accordo da 20 milioni di dollari con Netflix, per terminare la lavorazione del film e distribuirlo sulla piattaforma di streaming. Il tutto anche grazie al passaggio al Festival canadese.
Il 2020 doveva essere l’anno delle registe donne, ma con la pandemia e la chiusura dei cinema, l’uscita in sala di quei film, che dovevano segnare un momento fondamentale, è stata rimandata. Trovare un modo alternativo per diffondere comunque quei contenuti, e cavalcare l’onda di movimenti come il Black Lives Matter, è diventato fondamentale.
Lunghi dread e occhio pesto. È irriconoscibile in Bruised l’ex modella diventata attrice nel 1991 con Spike Lee in Jungle Fever: «Ancora oggi devo ringraziare Spike per avermi fatto interpretare una tossicodipendente, e aver dato importanza non solo al mio aspetto. Dio solo sa quanto mi sono allenata a dire le parolacce per quel ruolo. Non mi è mai tornato utile sul lavoro, ma a casa si».
Da conturbante Bond Girl, che ne La Morte può attendere fece il verso a Ursula Andress, a supereroina. Non solo Catwoman (che le valse il Razzie Award, il premio per la peggior interpretazione), anche Tempesta nella saga degli X-Men (recentemente ha dichiarato di non essersi trovata a suo agio con il regista Bryan Singer, accusato in passato di molestie). Ruoli drammatici nel curriculum e il vezzo per i film d’azione (ne combina di ogni in John Wick 3 al fianco di Keanu Reeves).
Halle Berry è già un nome scritto sui libri di storia, anche se questo l’amareggia profondamente: «Sono stata la prima donna di colore a aver vinto un Oscar come miglior attrice protagonista per Monster’s Ball, e dal 2001 spero che qualcuna possa raggiungere quello stesso traguardo. Ma ogni anno rimango delusa, e sempre più sola».
Quei cambiamenti auspicati forse sono all’orizzonte, anche se con questa performance rischia di essere nuovamente lei la vincitrice.
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