Fuocoammare, Rosi nell'inferno di Lampedusa

Fuocoammare, Rosi nell'inferno di Lampedusa
di Fabio Ferzetti
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Domenica 14 Febbraio 2016, 18:38 - Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 17:42

dal nostro inviato
BERLINO
Gianfranco Rosi ha fatto il miracolo. Ha preso uno dei soggetti più logorati dai media e ne ha fatto qualcosa di mai visto. È stato più di un anno a Lampedusa e ne è tornato con un film che sorprende, commuove, incanta, strazia, fa pensare, ma soprattutto connette con la chiarezza della poesia cose apparentemente lontanissime. Fino a rendere questa formula a volte così remota, l'emergenza migranti, parte pulsante di un insieme più vasto in cui ci siamo tutti. Noi, loro, i lampedusani che fanno la loro vita, un bambino che cresce andando a caccia di uccelli con la sua fionda, un pescatore che si immerge in cerca di ricci, i membri delle unità di soccorso che soccorrono i naufraghi stremati, e a volte purtroppo possono solo contare i cadaveri.

Ma senza sbatterci in faccia immagini ricattatorie. Perché Fuocoammare, applaudito a lungo e con emozione in Concorso alla Berlinale, non fa cronaca, non è un'inchiesta («quelle le fanno giornali e tv, io offro delle sensazioni, apro degli interrogativi» dice il regista). È il giornale di bordo di un'esperienza limite che esiste solo perché Rosi ha trovato le sue guide ideali in quell'inferno. Il piccolo Samuele, che durante il film cambia, cresce, intuisce cose che prima non poteva nemmeno concepire, proprio come noi, che alla fine lo vediamo “dialogare” con gli uccellini neanche fosse San Francesco.

IL MEDICO
E naturalmente il dottor Bartòlo, il medico di Lampedusa che da anni soccorre quei disgraziati, o indaga sui loro resti («ma quale abitudine, non ti abitui mai a queste cose, ti resta un vuoto dentro che te li fa sognare la notte...»), e col suo monologo carico di dolore e dignità ha fornito a Rosi una delle chiavi del film.

«Quando è arrivato l'invito di Berlino la scena del dottore davanti al computer con le immagini dei migranti non l'avevo ancora girata», racconta ora Rosi. «Sono tornato a Lampedusa perché sentivo che mancava qualcosa. In fondo anche io senza Bartòlo non avrei capito molte cose. Così abbiamo girato tre quarti d'ora, nel film sono 5 minuti ma non puoi far vedere tutto, nel computer di Bartòlo ci sono immagini insostenibili».

E Fuocoammare deve molto a questo rigore. «Alle immagini più forti non puoi arrivare in modo gratuito, te le devi conquistare. È un percorso di crescita, come quello del piccolo Samuele». Che a un certo punto va dall'oculista e scopre di avere un “occhio pigro”, lui che era così fiero della sua mira. «Ecco, quell'occhio pigro è anche il nostro, anche noi forse dobbiamo imparare a guardare le cose diversamente». Solo così ci conquistiamo il “diritto”, e la forza, di vedere cosa succede davvero durante i soccorsi, al largo. E solo così Rosi è riuscito a catturare scene sconvolgenti, non per l'orrore ma per lo stupore e la speranza. Come quella preghiera collettiva, tra il gospel e il rap, in cui un sopravvissuto elenca come in trance tutti i pericoli a cui sono sfuggiti lui e i compagni dall'Africa a Lampedusa, una scena davvero da brividi. «Non volevo fare interviste, ma quel momento da solo vale più di mille racconti.

Sono fortune che capitano quando costruisci un rapporto e segui davvero i tuoi personaggi. È per momenti come questo che ho girato 80 ore di film. Senza fare paragoni, le immagini dell'Olocausto arrivarono dopo, il mondo poteva dire di non sapere. Oggi non è più possibile. Quelle immagini ci assediano da tutte le parti. Ma proprio per questo dobbiamo imparare a guardare. E a fare qualcosa, perché la tragedia è solo all'inizio e se ci limitiamo a mettere fili spinati, abbiamo già perso».