Dobbiamo parlare, scontro di coppie in un attico in centro a Roma con Sergio Rubini e Isabella Ragonese

Dobbiamo parlare, scontro di coppie in un attico in centro a Roma con Sergio Rubini e Isabella Ragonese
di Valentina Tocchi
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 21 Ottobre 2015, 19:25 - Ultimo aggiornamento: 24 Ottobre, 10:33
Un attico in affitto nel centro di Roma, due coppie di amici e tante parole, che se aiutano a spiegarsi non è detto aiutino i protagonisti a capirsi o restare vicini, tante risate, alcune amare. Sono questi i capisaldi del nuovo film di Sergio Rubini, “Dobbiamo parlare”, raffinata commedia interpretata dallo stesso Rubini, da Isabella Ragonese, Fabrizio Bentivoglio e Maria Pia Calzone.



Presentato oggi alla Festa del Cinema di Roma, il film, prodotto da Carlo degli Esposti e Marco Balsamo, sarà nelle sale dal 19 novembre prossimo mentre, cosa originale nel panorama cinematografico italiano, il progetto ha potuto contare su una sperimentazione teatrale preliminare alla realizzazione del film.



Partito dal teatro e approdato al set, infatti, “Dobbiamo Parlare” sarà in scena, sempre a Roma, anche al teatro Ambra Jovinelli nei prossimi mesi. La trama vede scontrarsi due coppie agli antipodi: quella di intellettuali formata da Sergio Rubini e da Isabella Ragonese, e quella di ricchi borghesi formata da un Fabrizio Bentivoglio - che per la prima volta reciterà in “romano” sfoggiando una inedita vis comica - , e dalla Calzone. Ed è proprio per saperne di più che, come i protagonisti del film, anche noi abbiamo voluto “parlare” con Sergio Rubini ed Isabella Ragonese.



Sergio Rubini, come è nato questo progetto e soprattutto l’idea di proporlo sia in teatro che al cinema?

S.R. L’idea è nata quando, dopo aver lavorato per qualche tempo con gli sceneggiatori Carla Cavalluzzi e Diego De Silva, ho portato la sceneggiatura al produttore Carlo degli Esposti. Insieme a lui abbiamo iniziato ad ipotizzare la possibilità di fare alcune “prove recitate” in teatro, coinvolgendo il pubblico, e di far crescere parallelamente il film e lo spettacolo.



E’ un iter insolito per la nascita di un film. Cosa ha comportato?

S.R. L’idea di provare prima in teatro la avevo accarezzata anche per altri film, perché è davvero molto virtuosa, ma era sempre caduta per ragioni produttive. Il problema, infatti, è riuscire a bloccare gli attori per il tempo necessario, cosa che non avviene quasi mai visto che ci si conosce pochi giorni prima delle riprese. In questo caso, invece, grazie alla produzione ho potuto contare su attori che erano già consapevoli del tipo di percorso che avremmo fatto. Questo ha comportato davvero una costruzione graduale e progressiva della commedia.



Dove avete effettuato le prove?

S.R. Nelle Marche, ad Ancona e ad Ascoli Piceno, di fronte ad un folto pubblico che ci ha aiutato tantissimo a capire cosa funzionasse e cosa andava modificato. Una risata del pubblico, un momento di silenzio, anche un colpo di tosse fanno capire esattamente cosa debba cambiare. E i cambiamenti che sono stati apportati in quella fase sono stati spesso importanti.



Isabella Ragonese, Lei viene dal teatro. Le era mai capitato di affrontare un iter del genere nello sviluppo di un film?

I.R. No, ma è stato bellissimo. Innanzitutto perché ha ovviato a quelle circostanze, a volte un po’ fuorvianti, per cui devi interpretare una coppia che sta insieme da lungo tempo con un attore che hai conosciuto solo qualche giorno prima delle riprese. In questo caso, per interpretare la compagna trentenne di Sergio Rubini, durante la preparazione a teatro ho avuto la possibilità di assimilare i modi di dire e gli atteggiamenti di Sergio, proprio come avviene in una coppia collaudata.



Nel film Lei è l’unica trentenne, portatrice di un modo diverso di vivere i sentimenti rispetto agli altri. Cosa pensa della sua generazione?

I.R. Non è la prima volta che mi trovo a dare un volto alla generazione di trentenni alla quale appartengo. Ho esordito al cinema con “Tutta la vita davanti”, e già quella pellicola dava l’idea di una generazione alla quale viene chiesto innanzitutto di aspettare il proprio turno, di avere pazienza. Ora sento che, in parte, qualcosa stia cambiando.



Rubini, una coppia di cosa “deve” parlare?

S.R. Diciamo che il senso del film gioca appunto sull’ambiguità di questa frase, che potrebbe essere letta anche in senso interrogativo. Della serie “siamo proprio sicuri di dover parlare?”. Non a caso nel film c’è una simbologia legata a dei pesci rossi, perché a volte le parole non fanno altro che rovinare, e forse è meglio stare zitti. Muti come pesci. In realtà, però, questo è un film essenzialmente femminile.



In che senso?

S.R. “Dobbiamo parlare” è la tipica frase femminile di fronte alla quale gli uomini scappano o svengono. Ma la verità è che le donne, che pronunciano spesso questa frase, sanno anche quando è opportuno tacere.



Isabella Ragonese, Lei ha mai detto “dobbiamo parlare”?

I.R. Non lo dico spesso, non amo molto l’ossessione femminile per le spiegazioni. Le parole possono anche rovinare, rendere più complicate le cose. Detto questo a volte questa fatidica frase tanto femminile mi è stata detta. Dagli uomini.



“Parlare o non parlare, questo è il problema”. Sergio Rubini, parole a parte, non sarà la coppia che, all’epoca del divorzio breve, non regge più?

S.R. In realtà proprio in questo periodo storico la coppia dovrebbe vivere la sua stagione più felice. Dato che ci sono ormai tutte le possibilità di “scoppiarsi”, le coppie che durano dovrebbero essere le più sincere e oneste. Proprio nel film, però, vedremo che non sempre è così. Anzi, a volte proprio le coppie più “idealiste” e romantiche scoprono che, nelle pieghe dei rapporti apparentemente più puri e intellettualmente onesti, si nascondono comunque l’individualismo, la vanità, che dell’amore sono nemici.



Rubini, in questo film Lei è protagonista e regista, sia al cinema che in teatro. È difficile fare tutto?

S.R. In realtà attore e regista sono due ruoli opposti. Il regista controlla, l’attore deve affidarsi. Ed è molto più difficile e spaventoso affidarsi.



Lei si dirige da solo, affidarsi a se’ stesso è ancora più difficile?

S.R. Con il tempo, visto che non è la prima volta che lo faccio, ho imparato ad identificare delle persone di cui mi fido sul set e ad interpretare i loro sguardi, le loro espressioni. Su questo set l’opinione di un amico come Fabrizio Bentivoglio è stata preziosa.



In questa commedia qualcuno ha voluto vedere un accenno a “Chi ha paura di Virgina Wolf”, qualche parallelismo con “Carnage” di Polanski. Che rapporto ha Lei con i grandi del passato?

S.R. Credo che si debba pensare alle storie, avere in testa i personaggi, quello che si vuole dire. In questo progetto mi sono concentrato su questo. I grandi vanno onorati ma devono lasciare spazio ai personaggi, alla storia che si vuole raccontare. E’ una cosa che ho imparato agli inizi della carriera, quando ho avuto il privilegio di lavorare con Fellini. Un’esperienza meravigliosa ma che può anche portarti a rinunciare a fare film, “tanto c’è già Fellini che li fa meravigliosamente”.