Eastwood: "Vi racconto il pop dei '60
ma non dimentico Sergio Leone"

Una foto recente di Clint Eastwood, 84 anni
di Gloria Satta
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Mercoledì 4 Marzo 2015, 11:10 - Ultimo aggiornamento: 11:13
Un’inedita barbetta, una fidanzata giovane nuova di zecca (la bionda quarantenne Christina Sandera, estranea al cinema), un’energia incrollabile e un set dietro l’altro. A 84 anni, cinque Oscar vinti e sette figli avuti da cinque donne diverse, Clint Eastwood torna sugli schermi con Jersey Boys, il film da lui diretto e dedicato al gruppo pop americano dei Four Seasons che, fra trionfi e cadute, imperversò negli anni Sessanta.

Ispirato a un premiatissimo musical (ma non è un musical), Jersey Boys racconta la storia dei quattro ragazzi che, provenienti dalla parte malfamata del New Jersey, conquistarono il pubblico di tutto il mondo grazie a successi discografici come Sherry, Big Girls Don't Cry, Walk Like a Man, Dawn, Bye Bye Baby. Interpretato da John Lloyd Young, Erich Bergen, Vincent Piazza, Michael Lomenda e Christopher Walken, dopo l’anteprima al Festival di Taormina il film uscirà con Warner il 18 giugno. Il giorno dopo torneranno nelle sale del circuito The Space Cinema, restaurati dalla Cineteca di Bologna, i tre capitoli della ”Trilogia del dollaro” di Sergio Leone, prime grandi interpretazioni di Clint: Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono il brutto il cattivo.

In questo periodo Eastwood ha ripreso il lavoro ed è sul set di American Sniper, il film sulla storia vera del cecchino dei marines Chris Kyle, 160 uccisioni all’attivo (interpretato da Bradley Cooper), un progetto ereditato da Spielberg. In una pausa, il regista ”dagli occhi di ghiaccio” ci ha parlato con entusiasmo di Jersey Boys, per il quale ha scritturato alcuni degli attori che avevano rappresentato lo spettacolo in teatro. Facendoli cantare dal vivo, e non certo in playback, anche davanti alla cinepresa.

Come le è venuto in mente, Mister Eastwood, di girare questo film?

«Mi pareva che bisognasse proprio farlo! (ride, ndr). E’ buffo, perché non avevo mai visto il musical, ma negli anni ne ho sentito molto parlare. Qualcuno a un certo punto mi ha chiesto se fossi interessato a portarlo sullo schermo. Io ho risposto di sì, quindi sono andato a vedermi tre diversi allestimenti a New York, San Francisco e Las Vegas. Guardando recitare e cantare quegli attori meravigliosi ho pensato: è proprio un bel progetto da realizzare!».

E’ nota la sua passione per il jazz, ma è stato un fan anche del pop?

«Al sassofonista Charlie Parker ho dedicato nel 1988 il film Bird, ma amo ogni genere di musica. E anche se non sono mai stato un fan del pop anni Sessanta, mi piacevano molto i Four Seasons: la loro musica era di gran lunga superiore, energica, divertente...Il brano You’re too good to be true è un hit dell’epoca, ma avrebbe potuto essere un classico degli anni ’40, dei ’50 o di qualunque altro momento storico. Quanto agli attori, non ho voluto grandi nomi, ma quelli che mi sembravano più giusti per ciascun ruolo».

Portando i Four Seasons dal palcoscenico allo schermo, qual è stata per lei la sfida più grande?

«Non ho mai pensato che fosse una sfida. Il musical era meraviglioso e sprigionava tante emozioni, ma io ho affrontato la storia da un punto di vista più realistico. In un film puoi fare molte più cose che in teatro».

Ha incontrato Frank Valli, il leader del gruppo?

«Sì, qualche anno fa. Mi ha raccontato che essere cantante in New Jersey, ed esserlo in quegli anni, era molto duro. I suoi ragazzi cantavano sotto i lampioni, esponendosi al ridicolo. Poi sono diventati campioni...c’è voluta molta perserveranza per superare gli ostacoli e le traversie che i Four Seasons hanno incontrato sul loro cammino».

A quale dei quattro protagonisti si sente più vicino?

«Un po’ a tutti. Sono cresciuto in periferia e ho studiato in una scuola frequentata a metà da italiani e a metà da americani. Avevo un sacco di amici, è stato un periodo simpatico e divertente...Un po’ di tutto questo si è riverberato sui personaggi del film, anche se certe cose oggi non si possono accettare: per esempio, il pregiudizio che quando prendi la strada sbagliata ci rimani per sempre. Non so se è ancora vero, ma di certo è un’idea che appartiene al passato».

E’ soddisfatto di come ha realizzato il film?

«Sono stato molto fortunato, ed è dire poco. Ogni tanto gioco a golf e penso: preferisco avere fortuna che essere bravo. Ecco, sono stato fortunatissimo nel conoscere questi attori, vederli esibirsi individualmente in spettacoli diversi e poi tutti insieme con un risultato strepitoso. Il film è anche un omaggio allo sceneggiatore, il vero artista creativo che comincia da zero, cosa che mi sorprende sempre. Il regista, come l’attore, è solo un artista che interpreta il suo lavoro e io ho avuto la fortuna di avere il materiale del film grazie agli sceneggiatori Brickman e Elice».

Che rapporto ha con l’Italia?

«L’Italia è un Paese fondamentale nella mia carriera, che è cominciata proprio con i western di Sergio Leone. Non c’è dubbio, devo al pubblico del vostro Paese i miei primi successi mondiali».

Qual è il segreto della sua straordinaria energia?

«Il piacere di fare il mio lavoro, la curiosità. E la voglia di lasciare il passato dietro di me. Guai a vivere nella nostalgia: devi goderti quello che verrà, aiutare gli altri...Rimango ottimista, malgrado i tempi che viviamo. Il pessimismo non porta da nessuna parte»
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