A ROMA
È il 1987 e Lynch sta cenando a Roma, con Isabella Rossellini, Silvana Mangano e Marcello Mastroianni, e racconta di avere amato soprattutto 8½, ma anche La strada; la mattina dopo Mastroianni gli manda una Mercedes, che lo scorta sul set de L’intervista per incontrare il maestro: diventano amici. Qualche anno più tardi, il regista è elettrizzato quando il suo film Cuore selvaggio viene proiettato a Cannes dopo La voce della luna, ultimo lavoro fuori concorso del maestro romagnolo. Vincerà la Palma d’oro. Ma è nell’ottobre del 1993 l’incontro che gli spezzerà il cuore. «Stavo girando a Roma uno spot della pasta Barilla, e la star era Gérard Depardieu». Qualcuno lo informa che stanno portando Fellini a Roma da un ospedale del Nord Italia, e che probabilmente non ne avrà ancora per molto. Lynch trova il maestro su una sedia a rotelle: gli prende la mano con affetto, e continua a tenerla per almeno mezz’ora, mentre gli racconta vecchie storie del tempo andato e come le cose siano cambiate in peggio. «Vedi, David, una volta sarei uscito a prendere il caffé e avrei trovato tutti quegli studenti, avrei parlato con loro. Andavano sempre al cinema, sapevano tutto dei film. Oggi, se esco, non c’è nessuno: stanno tutti guardando la televisione». Quando Lynch esce dalla stanza, Fellini sussurra al suo accompagnatore: «Quello è un bravo ragazzo». Due giorni più tardi, il maestro entra in coma, e poco dopo muore.
Lo spazio dei sogni è costruito su due piani: McKenna fa il suo lavoro investigativo, ripercorrendo la vita di Lynch dall’infanzia alla maturità, spesso riportando i racconti di amici e collaboratori; il regista poi interviene in seconda battuta, correggendo il tiro, snocciolando ricordi lontani. «Il lavoro di Lynch - scrive McKenna - risiede in una zona complicata, dove il bello e il dannato entrano in collisione».
A dispetto dell’ombrosità di certi suoi lavori, David era un bambino solare, con una spiccata vocazione al comando, rapito dagli esperimenti del padre agronomo, assiduo Scout e continuamente fidanzato. Gli anni Cinquanta lo segnano in modo indelebile. Le madri in corpetti di cotone, dai sorrisi smaglianti, gli allegri barbecue, le onnipresenti sigarette e - soprattutto - tutto quel rock and roll. Un giorno, molti anni più tardi, avrà un suo studio di registrazione.
LA PROVINCIA
La vita in provincia, dallo stato di Washington alla Virginia, passando per l’Idaho, sarà fondamentale nel suo cinema, così come il senso di paura, quasi di terrore, che suscita in David bambino l’impatto con la metropoli: «Andare a New York mi turbava sempre; tutto, in città, mi impauriva».
In The Elephant Man si trova a Londra, cineasta ancora sconosciuto, alle prese con un diffidente Anthony Hopkins. Lynch gli chiede di camminare e guardare lo specchio. «Il mio personaggio non lo farebbe», ribatte Hopkins. «Ok, cambierò la scena», risponde il regista. «David accresceva le sue competenze man mano che il film andava avanti», ricorda John Hurt. Il sesso, il potere che suscita, l’ossessione che ne deriva, è la vera fonte d’ispirazione: «Una sorta di porta verso qualcosa di potente e di mistico, che il cinema tratta in modo così piatto». Il film di fantascienza Dune, distrutto dalla critica, è forse il suo più grande rimpianto. Ma è con Velluto Blu, e Twin Peaks, che trova finalmente la consacrazione. Eppure il successo non gli è mai piaciuto: «Il fallimento non è un male: non si può che risalire, dà un senso di libertà».
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